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Europa League, il sogno della Roma si infrange ai rigori. La coppa è del Siviglia

Luca De Lellis
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La crudeltà del calcio è questa. Un rigore che entra, uno che esce, possono decidere le sorti di un’intera stagione e possono determinare le emozioni di milioni di persone. La Roma ce l’ha messa tutta, ma di fronte alla mistica del Siviglia in Europa League si è dovuta arrendere. Gli errori dal dischetto di Mancini e Ibanez premiano gli spagnoli dopo l’1-1 del match firmato Paulo Dybala e autogol dello stesso Mancini, che aveva aperto con un assist la sua rocambolesca partita. Per José Mourinho, capo-popolo e trascinatore indiscusso dei tifosi giallorossi, è la prima sconfitta in una finale europea dopo 5 vittorie. Per gli andalusi è la settima vittoria in questa competizione, un plebiscito non da poco.

Quanto alla partita, a cominciare meglio è stata la Roma con un quarto d’ora abbondante di predominio territoriale, condito da una chance nitida da gol per Spinazzola. L’esterno sinistro comincia l’azione con un cambio campo millimetrico e va a concluderla a rimorchio sull’intelligente assist di Celik, ma spara addosso a Bono. Il Siviglia non si scuote e allora i giallorossi ne approfittano. Mancini, ormai atipico uomo-assist nelle finali romaniste, manda in porta Dybala che sfila alle spalle di un disattento Badè. La Joya a tu per tu con il portiere marocchino non sbaglia, mandando in visibilio i 25mila tifosi giunti nella capitale ungherese e provocando un boato inspiegabile a Roma, di cui probabilmente l’INVG potrà aver calcolato la magnitudo. Il primo vero pericolo creato dagli spagnoli è nel recupero del primo tempo, con la staffilata mancina di Rakitic che da un bacio al palo e rientra in campo. Come contro il Feyenoord sul tiro di Malacia, Rui Patricio benedice ancora i legni della sua porta. Ma quello della Roma può essere configurato con un ottimo primo tempo, trascinata da un Dybala in stato di grazia, nonostante la sua disponibilità limitata.

Mendilibar nell’intervallo capisce che l’atteggiamento dei suoi è troppo remissivo, non coerente con la cultura degli andalusi. E allora spazio ai due giustizieri della Juventus in semifinale: Suso e il grande ex Lamela. E in effetti il Siviglia alza i giri del motore: Telles bussa subito alle porte di Rui Patricio, ma è solo un autogol sfortunato di Mancini al 55’ su un cross dell’instancabile Navas a mettere in ginocchio il muro difensivo giallorosso capitanato da un gigantesco Smalling. Adesso è 1-1. Anche Mourinho entra definitivamente in partita, innervosendosi per la gestione dei cartellini dell’inglese Taylor. Gli animi si scaldano, e Ibanez sbuccia da due passi il pallone del possibile nuovo vantaggio dopo una mischia furibonda. Dopo 67’ da campione Dybala deve alzare bandiera bianca, dentro Wjinaldum. Ma la Roma non esce più dalla metà campo, e il forcing del Siviglia si fa sempre più veemente. Ci si mette anche l’arbitro a far prendere uno spavento non necessario: rigore fischiato per presunto fallo di Ibanez su Ocampos. Ma dopo il consulto del Var capisce che è solo palla e opta per un dietrofront. Belotti spreca poco più tardi il gol della staffa su invito di Pellegrini, e allora è il Siviglia a dire l’ultima parola con la doppia conclusione di Suso e Fernando all’ultimo istante utile dei tempi regolamentari.

Negli interminabili supplementari non succede più praticamente niente, a parte la tragicomica traversa di Smalling sul gong. Le squadre sono esauste dopo una battaglia senza quartieri, e si gioca poco o nulla per le continue sofferenze fisiche dei protagonisti. Si arriva così all’incubo di tutti i tifosi: i rigori. Mourinho raggruppa tutti forse per uno degli ultimi discorsi alla sua seconda famiglia. Mancini e Ibanez falliscono i propri, e per la Roma le speranze terminano qui, anche perché Taylor fa ribattere il rigore decisivo a Montiel, che dopo aver segnato quello decisivo nella finale del Mondiale, ora diventa l’uomo decisivo anche in quella di Europa League.

Roma e il suo popolo sono in lacrime. Oggi non c’è tempo per pensare al futuro, ma c’è da vivere la sofferenza del presente, pur restando orgogliosi del cammino fatto. Perché due finali europee consecutive non si dimenticano facilmente.

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