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Maurizio Venafro, sei anni a processo. L'unico reato? È ancora comunista...

Francesco Storace
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Che Maurizio Venafro sia comunista non c’è dubbio. Rispetta chi gli è distante politicamente, ma le sue convinzioni non le molla. Quell’ideologia è l’unico “reato” che gli si possa ascrivere. Perché l’ex capo di gabinetto di Nicola Zingaretti ha visto finalmente la conclusione del processo che lo ha riguardato per anni. C’era una ipotesi di turbativa d’asta per la gara d’appalto Cup alla regione Lazio su cui si indagava e la Procura della Repubblica lo voleva colpevole. Quella storia era una bubbola. E’ finita come per altri imputati. Innocente. Onesto.

Ma quell’indagine gli ha tolto un pezzo di vita. Ti trovi improvvisamente le forze dell’ordine dentro casa alle 5 del mattino e la tua famiglia ti chiede che è successo. Lo scopri dopo, leggendo gli atti e pensi alla trappola ordita dal nemico o dall’amico infedele. E pensi al resto della famiglia, l’altra, quella comunitaria, quella che incontri ogni giorno al lavoro: scrivi al presidente della Regione, Zingaretti, non vuoi che ci vada di mezzo. Informi il tuo amico (e compagno) di sempre, Goffredo Bettini, e poi sai che ogni giorno dovrai sentire l’avvocato. Per sei anni, ma questo lo capirai solo alla fine del film.

Le indagini, i titoli sui giornali, il processo, l’appello, la Cassazione. Il telefono che squilla sempre di meno, ti voltano le spalle perché non si sa mai, l’inchiesta Mondo di Mezzo che era stata battezzata brutalmente Mafia Capitale e senza motivo, ha colpito tanti innocenti. 

E tra questi proprio Venafro. Uno che ha conosciuto a menadito la pubblica amministrazione. La politica. I rapporti istituzionali. Non per infierire, ma se in regione ci fosse stato ancora lui la grana delle mascherine non sarebbe mai scoppiata. Perché non ci sarebbe stato spazio per gli impiastri. Ad una società di lampadine non avrebbe mai chiesto quella roba. Se conosci il mestiere gli imbroglioni li scopri. Ma non perché era capo di gabinetto: semplicemente perché aveva mille occhi per proteggere l’istituzione. 

E’ sicuro che Venafro non ne voglia più sapere, perché la sofferenza per una vicenda giudiziaria che ti colpisce da innocente ti segna per la vita. Basterebbe leggere le parole vergate da sua moglie su fb, la rabbia di tanti amici. Perché il dolore di sei anni non viene cancellato per sentenza. 

E se scriviamo su di lui, come per tanti meno noti che hanno pagato per colpe che non avevano, è perché vorremmo umanità e giustizia in una società che invece le sentenze le pronuncia a colpi di post e tweet. Basta la decisione sbagliata di chi investiga per esporti al pubblico ludibrio. E nella società in cui la rete fa paura scatta il linciaggio. A prescindere.

Lo diciamo proprio perché il sistema politico di cui Venafro è stato consumato protagonista lo abbiamo contrastato politicamente e aspramente. Quante volte ci siamo confrontati proprio con lui? Ma non c’era un fuorilegge al secondo piano di via Cristoforo Colombo.

Ora se ne è accorta anche la magistratura. Troppo tardi però. Di quel “comunista” avevano bisogno anche gli avversari politici e non per consociazione. Le imprese. E quanti cercavano riferimenti certi in regione. Parlarsi non fa mai male, non è inciucio o chissà peggio.

Il giorno delle dimissioni di Venafro, in quel 2014, cadde il gelo in Consiglio regionale. A ciascuno dei rappresentanti politici di maggioranza e opposizione veniva a mancare qualcosa. “Un galantuomo”, mi ha sussurrato inaspettatamente all‘orecchio un amico parlando di Venafro. Ma prima o poi dovrà tornare in campo per combatterlo di nuovo. 

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