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Per il seggio di Berlusconi in Senato ci sono quattro assi da giocare

Luigi Bisignani
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Caro direttore, quattro colpi in canna per il centrodestra. La «gioiosa macchina da guerra del terzo millennio» composta dai tre soldati di ventura Peppiniello Conte, il reiterante De Benedetti e Il Fatto Quotidiano, rischia una débâcle fatale quasi quanto lo fu per Achille Occhetto nel 1994. Basterebbe che Giorgia Meloni e Matteo Salvini chiedessero a Forza Italia di indicare una personalità dell’«inner circle» del Cavaliere a succedergli nello scranno al Senato, dove era appena rientrato dopo «il golpe Severino» per dare un grande segnale di compattezza ed evitare così le risse già partite per le elezioni suppletive nel seggio di Monza-Arcore previste per settembre. Solo quattro personalità possono aspirarvi a pieno titolo. In testa, ovviamente, Paolo o Marina Berlusconi. A seguire, in rigoroso ordine alfabetico, Fedele Confalonieri e Gianni Letta. Paolo, per gli amici Paolino, imprenditore ed editore, che ha portato il Monza in serie A, ha davvero tutte le carte in regola, come ha subito commentato la parlamentare toscana Erika Mazzetti. Nessuno più di lui ha onorato Silvio in quanto, «diciamolo» copyright «Gnazio» La Russa - essere il fratello piccolo di un gigante come il Cavaliere non è stato facile. Lui stesso lo raccontava con il suo sorriso contagioso: «Una volta mi fermano per strada e mi chiedono: scusi, Dottore, ma come sta la mamma di Silvio? Mi hanno perfino tolto mia madre...». La saggia e aguzza Signora Rosa che aveva iniziato a lavorare in Pirelli come il mio papà. L’ultima volta che la vidi, proprio a casa di Paolo, era impensierita per via della fidanzata dell’epoca, della quale il figlio era molto innamorato. Eravamo sotto un portico e sbucavano cavalli ovunque, con Mamma Rosa che, in milanese, ad un certo punto commentò: «Chi da Paulin se po minga mangia fora che te se trovet el mus dun caval in del piat...». In quel periodo, pur chiamandosi Bossi, ce l’aveva con il Senatur che stava tramando contro il suo primogenito prediletto. Lo aveva capito prima di tutti.

 

 

Il profondo legame tra Paolo e Silvio negli ultimi anni è stato ancor più stretto, cementato anche per l’accanimento giudiziario, gli acciacchi fisici che entrambi hanno dovuto subire e le barzellette che facevano a gara a raccontare. Silvio si divertiva con i giochi di prestigio che Paolo sa fare con incredibile abilità, quasi ai livelli del grande mago caro alla famiglia, il mitico Eddy, mandato in missione perfino al Cremlino da Putin e che, in una serata a casa Carraro, ha rallegrato i 90 anni di Giulio Andreotti facendogli sparire una tessera ricomparsa nel taschino di Franco. Quando Paolo venne ricoverato, Silvio lo chiamava dalle sei alle otto volte al giorno, così come negli ultimi mesi i messaggi tra loro erano diventati struggenti. Con Silvio che, da Arcore o dall’Ospedale San Raffaele, gli scriveva: «Fratellino mio, non ti preoccupare, ce la farò anche questa volta». Su Marina, la cocca di papà, non dovrebbe esserci gara. Ricordo un episodio: aprile 2013, Governo Letta, dopo il disastro di Mario Monti. Piena bufera giudiziaria sul Cavaliere e crisi politica in Forza Italia. Raccogliendo più voci, lanciai ad un «Giorno da Pecora», condotto dall’inimitabile Giorgio Lauro e dall’irresistibile Geppi Cucciari, l’idea di Marina leader di Forza Italia. Mi mandò a chiamare il Presidente pregandomi di non insistere: «È una manager straordinaria, sta rimettendo a posto la Mondadori, non è fatta per la politica. E poi non voglio assolutamente che le capiti quello che sta succedendo a me». In seguito alla condanna in primo grado per la vicenda Ruby, pochi mesi dopo arrivò la prima definitiva per frode fiscale, un paradosso per uno dei primi contribuenti italiani.

 

 

Restano poi i due fuoriclasse: Fedele Confalonieri e Gianni Letta, rispettivamente il compagno di una vita e l’infaticabile «amico» che l’ha condotto per mano nelle Istituzioni con un raro senso dello Stato, come riconosciuto da tutti. Il primo, con la sua bonomia e autorevolezza è stato, per anni, un presidio fondamentale a difesa delle sue aziende. Il secondo, l’unico in grado di consigliarlo nei Palazzi, ma che, a differenza della pubblicistica che lo dipinge come «l’Eminenza azzurrina», più di una volta ha detto la sua contrastando il Capo, facendo addirittura saltare sulla sedia un «bisonte buono» come Denis Verdini salutato affettuosamente da tutti nel Duomo di Milano dove si è recato per i funerali. A Letta, Silvio - politica estera a parte - delegò quasi completamente l’azione del Governo anche perché al Cav piaceva essere presidente del Consiglio, ma non farlo, allergico com’era ai mille riti istituzionali, dalla Consulta alla Corte dei Conti, dalle trattative con le parti sociali alle grandi emergenze, fino alle delicate questioni con le intelligence o le bizze dei vari presidenti della Repubblica che non l’hanno mai certamente amato. Ma era pur sempre il premier carismatico e indiscusso al quale spettava ovviamente l’ultima parola, anche quando, in tempi di finanziaria last minute, si faceva convincere da Giulio Tremonti - preoccupato della tenuta dei conti pubblici - a far saltare le mediazioni con i ministri furiosi per i tagli lineari nei bilanci dei loro dicasteri. Ricoprire il seggio di Silvio al Senato sarebbe davvero, per chiunque dei quattro, un sacrosanto tributo al Cavaliere, visto che purtroppo vi si è seduto per così poco tempo, dopo la scandalosa espulsione con effetto retroattivo. Tuttavia è riuscito ad avere la soddisfazione di rientrarci, intervenendo in Aula il giorno dell’insediamento di questo governo che, senza la sua visione, probabilmente non sarebbe mai nato. Meloni e Salvini riflettano: in questo momento sarebbe la migliore dimostrazione dell’unità del centrodestra. Nel nome di Silvio.

 

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