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Cgil, Landini fa flop e invoca lo sciopero contro la riforma del fisco

Christian Campigli
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Ritorno al passato. La ricetta del più grande ed importante sindacato italiano non è la riduzione delle tasse, il cambiamento dei contratti vigenti o un approccio meno dogmatico alle tematiche aziendali. Tutti concetti superati. L'idea vincente è lo sciopero contro il governo in carica. Meglio ancora visto che è conservatore e presieduto da un Primo Ministro espressione di un partito di destra. Maurizio Landini, rieletto segretario generale della Cgil al termine del XIX congresso nazionale con il 94,2% di voti favorevoli, ha delineato le prossime battaglie che lo attendono. «Con il governo e la premier Giorgia Meloni c'è una diversità molto profonda, molto consistente. Per tutto il sindacato italiano non c'è possibilità di discussione, bisogna avviare una mobilitazione che non esclude alcuno strumento, compreso se necessario lo sciopero. Lo vogliamo fare insieme a Cisl e Uil, ne discuteremo con loro, abbiamo già un incontro fissato la prossima settimana». Nessun dialogo, nessuna trattativa, nessuna proposta alternativa. Sciopero nella speranza che il governo, se non è oggi è domani, possa avere delle difficoltà. E, magari, al suo posto possa salire al potere un esecutivo di sinistra.

 

 

«Lo diciamo in modo chiaro al governo, alle forze politiche, alle controparti: noi non ci fermeremo e non accettiamo che sia il lavoro a pagare per tutti – ha tuonato Landini -. Questo Paese lo vogliamo cambiare più del governo e più delle forze politiche e lo diciamo a Cisl e Uil: lo vogliamo fare insieme a voi e agli altri lavoratori. Non ci fermeremo. La battaglia la vinceremo. Di cosa abbiamo paura, cosa dovremmo perdere? Le pensioni che non abbiamo, la precarietà, il salario che non arriviamo a fine mese? Se non fai nulla, hai perso prima di cominciare». La colpa del governo non è nemmeno tanto quella di provare a riformare un fisco ottocentesco. Basato su canoni ed idee ampiamente superate dalla realtà economica. A sentir parlare Landini il tempo, al contrario, sembra essersi fermato. Se si ascoltano quelle parole, ad occhi chiusi, pare ancora di vedere milioni di metalmeccanici sfilare per le principali città italiane. «In questo Paese c’è un punto di fondo che è la questione fiscale: un Paese che sta in piedi con le tasse pagate da lavoratori dipendenti e pensionati. E lo dico chiaro: mi sono rotto le scatole ad essere sempre io a pagare anche per chi non le paga e che sia sempre io a garantire quella sanità pubblica al posto di chi non lo fa ma la usa. Il fisco invece è un nuovo patto per la cittadinanza e se il 90% dell’Irpef lo sborsano dipendenti e pensionati il governo però ne parla solo con imprese o con chile evade, le tasse».

 

 

Il sindacalista reggiano ha poi rilanciato una sua vecchia proposta: «Un contributo straordinario per la creazione di un fondo di solidarietà per creare lavoro con cui ricostruire la coesione sociale nel Paese. D’altra parte con 100 miliardi di evasione c’è solo la strada del recupero da battere anche se un’altra strada è possibile: che il denaro, il contante scompaia lasciando alla tecnologica quel tracciamento necessario a stroncare l’evasione». Come era ampiamente prevedibile, Elly Schlein ha cavalcato l'onda. Schierandosi senza se e senza ma dalla parte di Landini. «La riforma fiscale del governo è preoccupante e sorprendente, vorrei fossimo uniti nel dire che questa baggianata di dire abbassiamo le tasse a tutti per far stare meglio tutto il Paese vuol dire far mancare servizi ai poveri e abbassare le tasse ai ricchi. Il vero problema, molto serio, è che è costosissima, la fanno con i tagli alla scuola e alla sanità, favorisce chi sta meglio». Gli fa eco Giuseppe Conte, leader del Movimento Cinque Stelle. «Siamo pronti a scendere in piazza con i sindacati o da soli o con tutti gli altri partiti che vorranno opporsi. La delega è un progetto recessivo per il Paese che favorisce le fasce più agiate della popolazione. Vogliamo un fisco più equo e progressivo perché non possiamo permettere un divario di 200, 300, fino 500 volte tra il top management e l’ultimo degli operai nella stessa azienda».

 

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