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La Ferrari di Meloni ancora da rodare. Bisignani: tenga buoni i Fratelli

Luigi Bisignani
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Caro direttore, come Fast & Furious, Giorgia Meloni è la nuova Ferrari della politica italiana ma, come la monoposto appena presentata a Fiorano, si trova ora a dover regolare motore, telaio e gomme per poter correre il gran premio che la porterà alle elezioni europee del 2024. Dopo i primi cento giorni di governo, nonostante il primato in classifica, si respira un’aria tesa attorno al circuito di piazza Colonna, così come al box di Palazzo Chigi e nei vari pit-stop dei centri del potere: ministeri, enti pubblici e ai comandi della sicurezza e dell’intelligence. Dal paddock del Palazzo inizia ad accendersi qualche scintilla con il solito, immancabile, «tango della gelosia» tra comari. Un po’ di nervosismo attorno al leader del mondiale inizia a serpeggiare anche tra i due copiloti chiave: i sottosegretari Alfredo Mantovano, magistrato tanto rigoroso quanto meticoloso e Giovanbattista Fazzolari, il quale, in virtù del feeling assoluto con il premier Meloni, finisce per occuparsi di tutto, creando trambusto anche nei rapporti con gli altri ministri e i vari dipartimenti. Tuttavia il test che ha creato più stress, cartellino rosso Montarulli a parte, è stato quello messo in pista per la vicenda Cospito dall’intemerata coppietta di «room mates» Donzelli-Delmastro, con due incidenti alla prima curva, al netto dell’avviso di garanzia al sottosegretario alla Giustizia per rivelazione del segreto d’ufficio e del classico «celodurismo» tra destra e sinistra su chi è più inflessibile davanti a mafia e terrorismo.

 

 

Il primo, un capolavoro di superficialità per l’aver trasformato, nella sacralità del Parlamento, un anarchico senza arte né parte in un martire mediatico capace di resuscitare qualche anarcoide sparso per la penisola, saldandolo al solito circo Barnum di arcobaleni, centri sociali, no tav, in collegamento, per di più, con altri spiantati omologhi di Grecia, Spagna e Francia. Sarebbe bastato chiedere conto delle scampagnate nelle carceri sarde della coppia di indignati speciali del Pd «Orlando-Serracchiani», anziché organizzare quella sceneggiata nell’aula di Montecitorio, la cui conseguenza, ancora più grave, è stata la messa in difficoltà di Giorgia Meloni e Carlo Nordio, entrambi all’oscuro della «boutade» dei due fedelissimi meloniani. Solo qualche giorno prima, esponendo le linee programmatiche del suo ministero, l’apprezzato Guardasigilli era riuscito a porre questioni fondamentali per la rinascita del sistema giustizia, ottenendo persino il plauso di partiti che non fanno parte della maggioranza. Come è stato possibile, dunque, questo inutile inciampo parlamentare? La difesa ad oltranza che il premier è stata costretta fare al duplex Delmastro-Donzelli - peraltro, sembra, contro il parere di un ex magistrato di rango come Mantovano - ha finito per rallentare la rombante corsa della Meloni. Ma perché l’ha fatto, visto che pare fosse furiosa per l’accaduto? Verosimilmente per accontentare la sua base, che ancora non ha compreso cosa vuol dire stare al governo ma soprattutto perché il gran premio della politica non è un autoscontro dove si può tamponare la propria Giorgia a piacimento. Meloni si è trovata costretta a difendere, e a far difendere, i due discoli dopo che, in maniera davvero paradossale, era stata mandata a sbattere contro il Palazzo dei Marescialli l’auto di un driver storico molto apprezzato in Parlamento e dal Quirinale, quel galantuomo integerrimo di Giuseppe Valentino, pronto a diventare componente di peso del Csm e a cui hanno bucato le gomme all’ultima curva con una manovra grillina alla quale Fratelli d’Italia ha abboccato ingenuamente. Sarebbe utile conoscere, prima o poi, i mandanti di questo sabotaggio, sperando che si tratti di un episodio isolato e che il premier, in questa fase delicata, ricordi ai suoi fedelissimi della prima ora che l’obiettivo non può più essere solo quello di fare sacrosante battaglie identitarie (dall’immigrazione alla sicurezza) ma di non ostacolare la strada al governo.

 

 

Oltre che per le nomine pubbliche, delle quali tanto si parla, un campionato a sé è quello grigioverde della Guardia di Finanza. Il vertice in uscita, il Comandante generale Giuseppe Zafarana, è in carica dal maggio 2019 ed è molto amato sia all’interno che all’esterno. Per lui si è parlato più volte di un nuovo giro in pista ma l’ipotesi sembra naufragata per una serie di subordinate, al cui confronto Risiko è un gioco per bambini dell’asilo, ovvero trasferimenti a catena che vedono coinvolti Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza) ed Eni. Più di un ministro, perfino Adolfo Urso, ha un proprio candidato, così come il sottosegretario Mantovano che questa partita vorrebbe giocarla addirittura con Luciano Violante, indomito conoscitore dei più pruriginosi apparati dello Stato. Giorgia deve tenere allacciate le cinture e continuare la corsa. La sua monoposto è la più veloce ma guardi bene dagli specchietti retrovisori. Coraggio, ha tutto il tifo dalla sua, le altre scuderie ora non hanno più grip, ma il campionato è ancora lungo.

 

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