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Primarie Pd, ora sono la corsa per fare il leader dei perdenti

Claudio Querques
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Una sconfitta annunciata che però brucia lo stesso. Nelle sedi dei comitati dei due principali candidati alla segreteria dem l’umore è sotto le scarpe. In casa Pd il timore è che l’ennesimo crollo non sia una scossa di assestamento ma stiano cedendo tutte le fortificazioni, il muro maestro.

Se insomma le regionali dovevano essere un test sadomasochista per decidere se fa meno male perdere con il Terzo polo nel Lazio o con i 5Stelle in Lombardia, il test è miseramente fallito. Il flop è su larga scala, doppio. L'opposizione non riesce a costruire un'alternativa credibile. Non può consolarsi Stefano Bonaccini che per i suoi detrattori è rimasto renziano nell’animo. Ma neanche Elly Schlein che vorrebbe un pd tutto curvato a sinistra e sperava che da queste elezioni uscisse una indicazione precisa per le prossime Europee. Con l’uno o con l’altro si perde comunque. Si perde su tutta la linea. E si perde male: per distacco.

Con la resa della Pisana consegnata a Francesco Rocca. E le regioni in cui il centrodestra governa che ora sono 15 su 20. Cappotto. Una disfatta tira l’altra. Dopo il 25 settembre è arrivato il 13 febbraio. In vista delle primarie programmate tra due settimane un pessimo segnale. Chi dei due prevarrà, Bonaccini, avanti di circa 20 punti nel voto dei circoli o la Schlein che punta tutto sui gazebo, si dovrà ripartire dalle macerie.

La conclusione della fase congressuale – in tutte le regioni tranne le due in cui si andava alle urne, dove la scadenza è prorogata al 19 febbraio, - aveva risollevato di qualche millimetro il morale delle truppe. Una depressione lunga ormai 5 mesi. Ma se cambiano gli alleati, se attingi da un forno o dall’altro e il risultato resta lo stesso, la risposta non può che essere una: il problema non è con chi ti allei ma il Pd e dunque gli errori di Enrico Letta. L’unica cosa che mette tutti d’accordo.

«In un momento in cui il vento spira in senso contrario restiamo la maggiore forza di opposizione», si consola il segretario dimissionario, che resta il principale imputato. «Siamo ormai un caso internazionale - replica da Milano Majorino, deluso per la netta sconfitta – aver scelto il candidato solo due mesi prima del voto e mentre erano in corso le consultazioni interne non è stata una buona idea. E senza una leadership nazionale definita e non in costruzione, il centrosinistra avrebbe dovuto presentarsi unito».

Meno diretto ma comunque critico Alessio D’Amato: «Vanno riviste le procedure congressuali che non ci hanno aiutato». Con il doppio dei votanti, ha ottenuto la stessa percentuale di voti che prese Nicola Zingaretti (32% circa). La Lista Moratti resta fuori dal Pirellone. Azione e Italia Viva prendono meno voti di quanti ne ha presi donna Letizia. Ma lapidare i candidati sconfitti, come pure qualcuno ora vorrebbe, non ha senso. È il Pd, il brand del Nazareno che – al di là della sostanziale tenuta, un voto in fotocopia rispetto al passato - non tira più. A partire dal nome che dopo aver inanellato una lunga serie di débacle ora in molti vorrebbe cambiare.

Fallimentare la perfomance di Alessio D’Amato, l’ex assessore alla Sanità fortissimamente voluto da Carlo Calenda nel Lazio. Devastante la divisione in Lombardia dove il Pd (più o meno stabile intorno al 21%) si è andati sparati sull’europarlamentare Majorino. Un ufo abbattuto nel cielo di Milano per compiacere i grillini. C’è chi ha sperato nell’effetto-festival, chi ha rispolverato il pugno chiuso. E chi segretamente avrebbe preferito per affermare la sua linea che tra i due perdenti uno dei due lo fosse meno dell’altro. Non è andata così. E lo scontro continua. Bonaccini è in testa in Sicilia con il 42,2% contro il 36,9% della Schlein, in Calabria con il 53% contro il 21% della sua competitor. Ma a Bologna città è quasi parità: 45,45% del governatore contro il 42,24% della ex leader di Occupy pd. Una corsa in famiglia per salire sul carro dei perdenti.

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