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Definì Meloni "bastarda". Ora Saviano va a processo ma chiede la "grazia"

Il 15 novembre prima udienza a Roma per diffamazione. Ma lo scrittore chiede che la denuncia sia ritirata

Carlantonio Solimene
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Da qualche anno ormai esistono due Roberto Saviano. Il primo è lo scrittore di successo che ha pagato a carissimo prezzo la sua decisione di sfidare a viso aperto la Camorra. Mi permetto di dire - contravvenendo a una delle regole sacre del giornalismo che imporrebbe di non personalizzare mai un articolo - che sono un fervente ammiratore di «questo» Saviano. Ho letto e amato diversi suoi libri, mi sono appassionato alla serie «Gomorra» che l'ha visto come autore e ho trovato incomprensibili le polemiche di chi gli ha rimproverato il successo. Come se in Italia fare soldi a palate con il proprio lavoro fosse una colpa da espiare e non un merito.

C'è però un secondo Saviano, l'animale politico. Colui che ha deciso di sfruttare la notorietà per far conoscere le proprie opinioni su tutto quanto avviene nel Paese. E fin qui non ci sarebbe niente di male. Però l'ha fatto in una maniera - diciamo così... - poco ortodossa. Dividendo il mondo in buoni e cattivi e usando l'insulto come arma dialettica. Definendo, ad esempio, «ministro della malavita» il Matteo Salvini dell'era gialloverde.

E qui entra in gioco l'attualità. Il prossimo 15 novembre, infatti, a Roma si celebrerà la prima udienza del processo per diffamazione intentato da Giorgia Meloni nei confronti dello scrittore. La querela si basa sulla dura requisitoria che Saviano pronunciò nel dicembre 2020 nel talk "Piazza Pulita" nei confronti delle posizioni politiche dei leader della Destra sul tema immigrazione. Testualmente: «Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle ong: "taxi del mare", "crociere"... viene solo da dire bastardi. A Meloni, a Salvini, bastardi, come avete potuto? Come è stato possibile, tutto questo dolore descriverlo così?». Nel novembre 2021 il giudice per le indagini preliminari definì «esorbitante, rispetto al diritto di critica politica, l'epiteto "bastarda"» e decise il rinvio a giudizio dello scrittore.

Ieri, su "La Stampa", è stata pubblicata una lettera-appello di Burhan Sonmez, presidente della Pen International, associazione mondiale di scrittori «dedita alla difesa della libertà di espressione». Sonmez si rivolge a Giorgia Meloni e le chiede di ritirare la denuncia, descrivendo «una tendenza preoccupante in Italia, dove giornalisti e scrittori lavorano consapevoli di poter essere denunciati e incarcerati per quello che dicono o per quello che scrivono». Saviano ha rilanciato l'appello e ringraziato Sonmez.

Una premessa: Meloni farebbe bene, in effetti, a ritirare la querela. Non perché la presidente del Consiglio abbia torto nel merito, ma perché a Saviano e ad altri esponenti del mondo politico e culturale che l'hanno attaccata in questi anni oltrepassando i leciti confini del diritto di critica per sconfinare nel dileggio e nell'odio dovrebbe piuttosto erigere un monumento, dato che è anche grazie a loro che la sua scalata politica è stata tanto rapida e inarrestabile.

Il punto, però, è un altro. Davvero dare del «bastardo» a un avversario politico - che all'epoca, peraltro, era all'opposizione - costituisce un «sano e legittimo diritto di critica»? Davvero c'è qualcuno che, a sinistra, dopo aver denunciato per anni vere o presunte «campagne d'odio» promosse dalla destra, oggi è pronto a stracciarsi le vesti per rivendicare il diritto di insulto e di delegittimazione?

Negli scorsi mesi, per difendersi, lo scrittore ha citato il caso di una comica tedesca, Enissa Amani, condannata a 40 giorni di carcere per aver dato del «bastardo e idiota» a un leader, a detta di Saviano, «razzista e di destra». Il ché, in realtà, dimostra due cose: la prima è che non è vero che «certe persecuzioni esistono solo in Italia». No, se si insulta si viene condannati anche nella civilissima Germania. La seconda è che, se si crede davvero in quel che si dice e se si rivendica orgogliosamente la possibilità di insultare qualcuno, altrettanto orgogliosamente occorrerebbe essere pronti ad affrontarne le conseguenze, senza chiedere la «grazia» alla vigilia del processo.

Ma forse la chiosa migliore della vicenda sta nelle parole che lo stesso Saviano scrisse nel 2017, dovendo difendersi dagli attacchi di chi rilanciava la bufala del suo «attico a New York». «L'aggressione verbale in politica è uno strumento inutile, oltre che dannoso- sosteneva lo scrittore - perché distorce la voce e rende incomprensibili legittime richieste. (...) Credete davvero che le vostre urla, che i vostri insulti, vi garantiranno ciò che decenni di cattiva politica vi hanno tolto? E se la vostra risposta è: "Intanto urliamo, intanto insultiamo, poi si vede" significa che senza nemmeno rendervene conto (siete inconsapevoli, ma non incolpevoli) state lastricando voi stessi una strada peggiore di quella che avete trovato».

Ecco, al di là di come finirà la querelle giudiziaria con Meloni, l'augurio è che, per il futuro, Roberto si comporti come chiedeva il Saviano del 2017. Per non lastricare egli stesso «una strada peggiore di quella che ha trovato».

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