Sinistra in festa per il putiniano Lula. Pd e Calenda si dimenticano dell'Ucraina
Oramai la costante della politica italiana, a prescindere dal cambio d'epoche e di leadership è l'irrefrenabile vocazione del Pd alla doppia morale. Non ne possono fare a meno. Sia su vicende domestiche che, per dir così, d'importazione. Ecco l'ultimo caso. In Brasile, Lula, mito della sinistra, ha vinto veramente di un'incollatura le elezioni presidenziali che lo hanno visto sfidare il presidente uscente, il conservatore Bolsonaro. Esito giunto dopo una campagna elettorale violentissima. Ebbene, ovviamente i dem nostrani si sono precipitati nella corsa di tweet e dichiarazioni, sempre ad onorare l'alto, vecchio, rassicurante dato acquisito che li vede assai solerti nel celebrare le vittorie altrui e ben poco efficaci nel costruire le proprie (tanto, come si è visto negli scorsi dieci anni, non ne hanno neanche bisogno per governare).
Comunque, ieri dopo il risultato acquisito dall'altra parte del mondo è partito il peana. «Viva Lula Presidente!», scrive su twitter il segretario uscente Pd Enrico Letta. E via di coro, con Andrea Orlando che rompe ogni argine all'entusiasmo e twitta un eloquente «Forza Presidente, forza compagno Lula! W il Brasile democratico e progressista». E ancora Nicola Zingaretti: «Grande Lula, il Brasile torna democratico e progressista». Giuseppe Provenzano: «La vittoria di Lula riapre il cammino della democrazia, dei diritti umani, della giustizia sociale e ambientale nell'America Latina». E aggiunge: «Lula somiglia a quello che dice, e vince. Noi no, o non abbastanza. È qui la chiave per l'alternativa». Almeno, lui la mette sulla chiave interna. Dunque, il Pd ricomincia da Brasilia, così come ha mille volte provato a ricominciare da Washington, Madrid, Berlino? Non è la coazione a ripetere che interessa molto, in questo caso.
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Quanto l'evidente contraddizione, che apre il tema della doppia morale, su un tema non proprio secondario: il posizionamento già mostrato da Lula riguardo all'invasione russa in Ucraina. Già, perché il «compagno Lula» sodale di Zelensky lo è ben poco. E questo sorprende assai, considerando che il Pd, in questi mesi, ha passato ai raggi x ogni dichiarazione altrui nel tentativo di cogliere anche un solo atomo di «filorussismo». Lanciandosi anche in spericolate proprietà transitive quando c'era da attribuire a Matteo Salvini o a Giorgia Meloni quel che diceva Orban, che tra i leader europei è smaccatamente filorusso. E se quella proprietà transitiva dovesse essere applicata anche su Lula, gli eroi del Nazareno non ne uscirebbero benissimo.
Per esempio al Time, nello scorso maggio, si è addirittura azzardato a dire che il presidente ucraino Zelensky «voleva la guerra», e dunque «se non l'avesse voluta avrebbe negoziato un po' di più». Criticandone anche la grande esposizione mediatica: «appare in televisione mattina, pomeriggio sera, al parlamento inglese, tedesco, francese, come se stesse facendo una campagna elettorale. Doveva essere più preoccupato per il tavolo delle trattative».
Ancor prima, sulle cause del conflitto, ebbe a dire: «Il motivo di questa guerra, da tutto ciò che sento, da tutto ciò che leggo, si sarebbe risolto qui in Brasile davanti a un tavolino, bevendo birra. Se non al primo bicchiere, al secondo. Se non al secondo, al terzo o al quarto». Insomma, la diplomazia della sbornia. Una banalizzazione assai irrispettosa del dramma che proprio in quelle settimane (eravamo ad aprile) raggiungeva uno zenith di violenza ed efferatezza a danno del popolo ucraino.
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Ma Lula ne ha avuto, durante la campagna elettorale, anche per l'Europa, parlando a Cnn Brasil: «L'Unione europea simboleggia un'eredità di democrazia, tuttavia penso che abbia commesso un errore cedendo facilmente alla questione della guerra tra Russia e Ucraina: ci vuole più dialogo, più serietà». Una posizione sacrilega rispetto all'euro-idolatria costantemente osservata dal Pd. Per cui, come al solito, i «cattivi» stanno solo nel campo avversario.