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Dall'Ucraina alle alleanze fino agli Usa, Giuseppe Conte fa come mister Zelig

Pietro De Leo
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Lo chiameremo «metodo Whitman». Da Walt, poeta americano del XIX secolo, che scrisse: «Mi contraddico? Certo che mi contraddico, contengo moltitudini». E dunque eccola lì, la leadership di Giuseppe Conte, un lungo, splendente, epocale elogio umano della contraddizione elevata a gesto politico, e della disinvoltura a solidissimo scudo. Una ricetta buona da propinare a un’opinione pubblica che molto perdona e condona, perché la politica, rispetto agli anni in cui esistevano le appartenenze, le scuole di partito, i pensieri costruiti, è diventata fluida assai. E se quindi il posizionamento di Conte nel campo a sinistra del Pd inietta un senso alla sua storia, perché finalmente ha scelto un luogo nel mondo, non si può dimenticare l’essenza di questo sentiero lastricato di cambi in corsa, persino nella gestualità e nell’appeal.

Così il caso più recente, quello dell’altroieri, è l’ultima pagina di un lungo racconto. Si dice «orgoglioso» dell’importante recupero di terreno che le truppe ucraine, in queste settimane, stanno svolgendo ai danni degli invasori russi. E rivendica, Conte, l’adesione alla politica del governo di invio delle armi. Sorvolando sulla dimensione dei distinguo ch’egli aveva mosso sul punto sin dall’inizio delle ostilità. Perché questa «adesione» è stata assai di malavoglia, con controcanti continui, si sfiorò persino una mozione (la bozza era già pronta) di aperto dissenso rispetto all’invio armi al governo di Zelensky. E proprio il dossier bellico è stato l’innesco della scissione di Luigi Di Maio. Ora, dunque, siccome la respinta dei russi non sta avvenendo con carte bollate e pignoramenti dell’ufficiale giudiziario, ma con missili e bombe sapientemente utilizzate dagli ucraini, è chiaro che per misurare la dimensione di quell’«orgoglio», occorre fare la disamina su quel che è stato prima. Che diventa simbolo del tutto. A partire, per esempio, dalla violazione sistematica del brocardo cattolico secondo cui non dovresti fare agli altri ciò che vorresti sia fatto a te. Un esempio? Eccolo servito. Ai tempi del contismo imperiale, quando il Paese, sbigottito, inginocchiato, trafitto da un Covid che strappava via figli genitori, nonni, vicini di casa, il Nostro, che si trovò ad affrontare la questione come premier, soleva comparire in conferenze stampa serali, lungamente attese e rimandate, per scandire le misure antipandemiche al ritmo di «sarà consentito... vi consentiremo...». Ebbene, talmente era calato nella parte del leader del destino che, con il contorno dei giornali tradizionalmente vicini al centrosinistra che per lui bramavano d’amore, in una di queste conferenze stampa nell’aprile del 2020 aveva attaccato duramente Lega e Fratelli d’Italia, allora all’opposizione: «Soffiano sul fuoco, aizzano un Paese dove la tensione sociale e il disagio economico sono già altissimi». E guarda un po’, due anni dopo, proprio lui, il dispensatore di educazione e «forza tranquilla» con la pochette, si ritrova a evocare il pericolo «guerra civile» nel caso in cui sia superato il reddito di cittadinanza.

Altro esempio? Sul dossier bellico, Conte rimproverò a Draghi lo scarso coinvolgimento del Parlamento. Critica senz’altro fondata, se non fosse che a muoverla fu proprio l’uomo che, sempre sotto Covid, fece del Dpcm, che non prevede varo delle Camere, lo strumento attraverso cui deliberare su libertà e agibilità dei cittadini. E insigni giuristi sollevarono il problema dello stravolgimento delle fonti del diritto del nostro Paese. Ma d’altronde la politica è ormai diventata come un’app dello smarthpone, cambiano vorticosamente grafica, amici, nemici, idee e posizioni.

Capitolo uno, gli amici. Altalenante fu il rapporto con Salvini. Alleato nel governo Conte1. Trattato con sdegno nel Conte2. Di nuovo brevemente carezzato nei giorni, disastrosi, dell’elezione del Presidente della Repubblica quando l’ex premier avrebbe fatto i patti con chiunque pur di non vedere al Quirinale Draghi. Il Pd: nemico durante il Conte1, architrave portante nel Conte2, alleato in molti enti locali, e poi ora nuovamente nemico a cui gettare (e da cui ricevere) strali pressoché quotidiani. Donald Trump. Il 45° presidente degli Stati Uniti lo ha chiamato amichevolmente «my guy», il mio ragazzo, informandosi su di lui presso il corrispondente di Repubblica negli Stati Uniti che lo aveva avvicinato. Saputo la questione, Conte caccia via l’ombra del tycoon, riconoscendo che sì c’erano buoni rapporti tra Italia e Stati Uniti ai tempi dei rispettivi mandati, ma ribadendo che no, tra Trump e il leader del M5S non ci sono congiunzioni politiche. Troppo comodo, anche qui. Lasciando stare la storia opaca della trasferta dell’allora ministro della giustizia americano Barr in Italia per cercare informazioni sul Russiagate, rimane il profilo vero di una consonanza. Una prova? Conte andò a Washington e in un incontro con Trump diede l’assenso al Tap, infrastruttura che il M5S (allora non ancora suo partito) vedeva come la peste ma assai caldeggiata dalla Casa Bianca. E poi ci sono le iniziative politiche. I decreti sicurezza, voluti da Salvini per contrastare l’immigrazione clandestina, approvati dal suo primo governo, smontati dal suo secondo governo. La riforma Bonafede della prescrizione, approvata nel Conte1 e superata nel governo Draghi (dove il M5S, Conte leader, era in maggioranza). E via così, verso la prossima svolta, giocando a nascondino con la labile memoria collettiva.
 

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