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Il pessimo lascito di Mario Draghi. Riforme a metà, debito record e il solo obiettivo Quirinale: altro che “migliori”

Luigi Bisignani
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Caro direttore, Quirinale whatever it takes: c'è da pensare che questo sia stato il vero e unico obiettivo di Mario Draghi sin dal principio. L'incarico da premier, solo un dazio da pagare per ottenere quello di presidente della Repubblica, fallito per un mix di insipienza e supponenza anche dei suoi più stretti collaboratori. E non si capisce come ancora oggi, quei ministri - dalla Lamorgese a Orlando, da Franceschini a Giorgetti - che, seppur non pubblicamente, l’hanno tanto criticato nell’ultimo periodo per la sua alterigia, continuino ad invocarlo come il Sacro Graal. Ma non si può comprendere l’ultimo intervento, volutamente karakiri, di Draghi in Parlamento, se non si torna all’inizio della sua esperienza a Palazzo Chigi quando, in perfetta sintonia con Mattarella, scientemente umiliò i due leader del centrodestra, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, scegliendo al posto loro i ministri (Gelmini, Carfagna, Brunetta, Giorgetti e Garavaglia) che non erano certo in sintonia con i rispettivi vertici. Da allora si è andati avanti inginocchiati davanti a SuperMario, con i giornalisti di Palazzo che lo acclamavano, anche quando dava del dittatore ad Erdogan e dimenticava il ruolo fondamentale dell’Italia nel Mediterraneo (Libia docet), fallendo ogni iniziativa di politica estera, dove, con il suo prestigio, avrebbe certamente potuto incidere nelle complesse vicende legate all’energia e alla guerra. Il tentativo di mediazione insieme a Francia e Spagna, all’inizio del conflitto russo-ucraino, è penosamente naufragato per seguire la linea dell’invio di armi dettata dalla malferma gestione Biden. Per giunta, il «governo dei migliori» lascia in eredità oltre 1.500 decreti attuativi, che significa paralisi delle leggi approvate. Per non parlare dei ritardi dei progetti legati al Pnrr che fino ad oggi hanno consentito solo l’aumento di inutili burocrati.

 

 

Mentre il sogno del Quirinale svaniva, forse Draghi avrebbe dovuto tenere in mente la famosa frase che Andreotti ripeteva sempre: «nessuno è indispensabile, basta rendersene conto». Favorire la spaccatura dei Cinquestelle, con l’uscita del giovane Di Maio che ha scelto, «in nomine Mario», di andare ad impiccarsi politicamente ad un palo piddino è l’ennesima prova di scarsa visione politica del premier e dei suoi accoliti. La sbornia di potere di personaggi improvvisati come Francesco Giavazzi che, forte della fiducia del suo principale, ha infarcito di uomini senza storia e di modesti dirigenti della Cassa Depositi i consigli di amministrazione delle società a partecipazione statale che gridano vendetta per la loro manifesta non indipendenza e a volte inadeguatezza. Meglio sorvolare sulla scelta di Dario Scannapieco in Cdp che, dopo aver fatto una pulizia etnica, è riuscito a far marcire il principale progetto davvero utile alla crescita del Paese: la famosa rete unica, tanto invocata «a garanzia» dello Stato da un altro anticapolavoro di questo governo, il ministro Vittorio Colao. Basti pensare che, da settimane, Tim ha mandato tutti i numeri e i progetti, ma i mille consulenti della Cdp sono paralizzati dalla paura, con il risultato che la rete unica non si farà. In queste ore l’incessante lavorio di Palazzo è solo quello da ufficio di collocamento, con «navigator in doppiopetto» indaffarati a riempire tutte le caselle possibili. Tra i più esagitati, il capo di gabinetto Antonio Funicello che, come un pipistrello, ha il radar sempre acceso per scovare persone da piazzare nei tanti gangli della presidenza, dalla direzione del golden power fino alla commissione dell’antisemitismo. Non da meno il segretario generale Roberto Chieppa, che sta cercando di sistemare anche lui qualche anima candida prima di rientrare quatto quatto al Consiglio di Stato. In gran spolvero a Chigi, invece, la vicesegretaria Sabrina Bono, anche lei apparentemente intima di Giorgia, così come Roberto Alesse, messo sempre ingiustamente da parte in questi anni e pronto a spiccare il volo con i «Fratelissimi d’Italia».

 

 

Purtroppo, per il prode Giavazzi, nel perimetro degli affari correnti non sono rientrate le sue amate nomine nei cda delle aziende di Stato in scadenza, da Eni, ad Enel, da Poste a Terna; di certo però alla presidenza del Consiglio si trova un posto per tutti. Se il più attivo, come navigator d’alto bordo, è come detto Antonio Funiciello, lui stesso elevato in passato da factotum del Pd di Matteo Renzi e di Maria Elena Boschi a capo di gabinetto, prima di Gentiloni e poi di Draghi, non da meno sono gli shuffle tra prefetti del ministro Lamorgese o le nomine di ambasciatori «last minute» del ministro Di Maio. Se qualcuno è vicino alla pensione, poi, perché non promuoverlo per regalargli un’indimenticabile fine-carriera? Tutta spesa pubblica «bad», che SuperMario da governatore della Bce condannava, ma che da premier ha fatto aumentare come un Giuseppe Conte qualsiasi, portando il debito pubblico italiano dai 2.606 miliardi di euro a gennaio 2021, prima del suo arrivo, a 2.755 miliardi a maggio 2022, ultimo dato disponibile. Restano incompiute le grandi riforme, dalla concorrenza al fisco, dai tassisti al catasto; riforme che ogni anno la Commissione europea sollecita nelle sue raccomandazioni, sempre rimaste inascoltate. E dire che un tempo era proprio Mario Draghi, da Francoforte, a rimarcare tali inadempienze. E se a fare le riforme fosse in futuro Giorgia Meloni con Guido Crosetto sottosegretario che, come pochi, conosce la macchina dello Stato e sa ben dialogare con Parlamento e partiti? Per SuperMario, sarebbe di certo la risposta più inaspettata al suo presuntuosissimo «Siete pronti?».

 

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