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Crisi di governo, l'ultima mossa dei partiti in Parlamento: il voto di fiducia incastra Draghi

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Al giorno 5 su 7 della crisi di governo il quadro, invece di semplificarsi, si complica sempre di più. Perché nessuno dei protagonisti dello scontro - il premier Mario Draghi da una parte, i partiti dall'altra - sembrano voler concedere spiragli rispetto a quanto avvenuto giovedì scorso al Senato, con la mancata fiducia del M5S sul dl Aiuti. Ieri è stata la giornata delle manovre di Palazzo. Le conferenze dei Capigruppo di Camera e Senato, infatti, hanno reso noto che alle comunicazioni del premier, domani, seguirà il voto del Parlamento per chiama nominale. Una scelta in effetti scontata - visto che di «dichiarazioni fiduciarie» si tratta, e non di «informativa» - ma che di fatto scoperchia un tema sensibile alla vigilia del «d-Day». Potrà Draghi dimettersi dopo aver presumibilmente ricevuto un ampissimo voto di fiducia in entrambi i rami del Parlamento? La manovra, peraltro, prevedeva un secondo step. E cioè l'«inversione» delle Aule.

Draghi, secondo quanto proposto da Pd e M5S in Conferenza dei capigruppo a Montecitorio, avrebbe dovuto parlare prima alla Camera e poi al Senato. Una violazione della prassi palese. Perché in genere il premier si esprime precedentem e n t e nell'Aula in cui ha ricevuto la prima volta la fiducia o si è aperta la crisi. In entrambi i casi si trattava del Senato. Così il centrodestra è insorto e lo stesso leader del M5S Giuseppe Conte ha sconfessato la mossa del suo capogruppo Davide Crippa: «Non ne sapevo nulla». Alla fine per dipanare la matassa si sono sentiti i presidenti dei due rami del Parlamento, Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati, e hanno concordato per Palazzo Madama come «prima tappa» dello showdown. L'obiettivo del blitz fallito del Pd e del fronte «governista» dei grillini era cominciare da Montecitorio perché è lì che si annida la fronda «pro-Draghi» più numerosa nel Movimento.

Il segnale, insomma, sarebbe stato quello di un partito che sta grandemente con il premier nonostante il capo. Non sarà così. Peraltro, a termini di regolamento Mario Draghi potrebbe benissimo recitare le sue dichiarazioni, ascoltare il dibattito e poi recarsi al Quirinale per dimettersi senza aspettare il voto. Il precedente riguarda proprio Conte e il suo comportamento all'epoca della crisi del «Papeete». Ma, allora, l'ex premier non aveva i numeri, a differenza di Draghi. Si vedrà. Ciò che viene fatto filtrare da ambienti vicini all'ex governatore della Bce è che non ci sarebbe stato alcun ripensamento sull'ipotesi dimissioni. E, d'altronde, il gesto forte di giovedì scorso non ha provocato quello che Draghi auspicava. Giuseppe Conte ha mantenuto ferma la posizione del Movimento, chiedendo che nell'agenda di governo «siano inserite le priorità della nostra lettera» perché «il Paese è in una situazione disastrosa».

Dal centrodestra si è levato l'ennesimo aut aut: «Mai più in un governo con i 5 Stelle» hanno ribadito Lega e Forza Italia. Nel Carroccio, i cui vertici e ministri si sono riuniti anche ieri sera con Salvini, è emersa peraltro una certa insofferenza anche verso i ministri Lamorgese e Speranza e per le mosse del Partito democratico. Che è l'unica forza, in definitiva, ad aver modificato parzialmente la sua posizione. Dal no assoluto a una maggioranza senza i Cinque Stelle, Enrico Letta si è attestato sulla linea della stabilità a tutti i costi: «Giovedì la Bce presenterà i nuovi strumenti per aiutarci a combattere lo spread.

Ma se il giorno prima, mercoledì, in Parlamento non siamo noi a tirarci su da soli sarà più difficile poi chiedere agli altri di salvarci», ha osservato. Anche il blitz tentato con Crippa in capigruppo sarebbe un «segnale» da inviare al premier sull'imminente scissione grillina. E se in Forza Italia Berlusconi deve anche gestire le spinte pro-draghiane di ministri e aziende (Confalonieri e Letta starebbero alecremente lavorando per evitare la crisi) tra i centristi si continua a chiedere una soluzione che allontani le urne. Ieri Coraggio Italia, a margine della nomina di Michaela Biancofiore a vicepresidente, ha confermato il totale sostegno a Draghi. Il quadro, insomma, resta frastagliato. E non si vede come possa essere la semplice fuoriuscita di qualche decina di grillini a dare a Draghi quel «segnale di unità ritrovata» chiesta dal premier. Sembra il ripetersi delle complicatissime giornate del Quirinale, a gennaio scorso. Una vicenda con un epilogo non proprio gradito a Draghi. E anche questo, se si vuole, può essere considerato un «segnale». 

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