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Crisi di governo, dai partiti nuovi ricatti e veti incrociati. Draghi bis più lontano

Carlantonio Solimene
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Come se niente fosse accaduto. Il giorno 3 su 7 della crisi è stato quello in cui i partiti hanno provato a mettere in scena una improponibile rimozione dalla memoria di quanto successo lo scorso giovedì in Senato. Lo ha fatto, in maniera più esplicita, il capo politico del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte, quando ha chiarito che non era sua intenzione provocare le dimissioni del premier non votando la fiducia al dl Aiuti. E riavvolgendo il nastro fino alla famigerata lettera con le nove richieste per le quali si attendono «risposte». Ma, in maniera meno evidente, la stessa postura è stata assunta anche dagli altri partiti che teoricamente sosterrebbero la permanenza di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Perché Enrico Letta ha rilanciato il ddl Zan inviso al centrodestra, Lega e Forza Italia hanno ribadito la contrarietà a proseguire con i grillini e da più parti, infine, si è cominciato a parlare il linguaggio delle elezioni. Una sorta di eterogenesi dei fini: da un lato si supplica Draghi da tornare, dall’altro si ripropone lo stesso schema che ha convinto il premier a togliere il disturbo.

 

Il presidente del Consiglio, dal canto suo, ha assistito a questa ridda di dichiarazione contrastanti con un sentimento misto tra la delusione e la consapevolezza. Delusione perché si aspettava che il suo gesto di rottura provocasse un moto di responsabilità nel mondo politico. Consapevolezza perché lo spettacolo andato in scena anche ieri lo ha rafforzato nella convinzione della scelta presa: il governo di unità nazionale di fatto non c’è più. E per un uomo con il curriculum e la reputazione di Draghi è inaccettabile restare altri mesi a Palazzo Chigi solo per fare il vigile urbano che ordina il traffico della campagna elettorale ma, di fatto, non può realizzare quanto serve al Paese.

 

Tutto finito, quindi? È in realtà ancora presto per dirlo. Perché se da un lato Draghi non si fida più dei partiti (se mai lo ha fatto), dall’altro ci sono forze molto più potenti che soffiano in direzione contraria. L’elenco è lungo. Ci sono le cancellerie internazionali in apprensione, e dire di no alle richieste di Joe Biden è molto più complicato. E c’è la «moral suasion» di Sergio Mattarella. Certo, il presidente della Repubblica non può più contare sugli eccellenti rapporti personali con il premier, rovinati dall’epilogo della partita del Quirinale. Ma può ancora mettere sul piatto il «bene del Paese». L’insieme, cioè, di problemi e scadenze che, in assenza di un governo stabile e autorevole, rischiano di trascinare l’Italia in un groviglio socio-economico di difficilissima soluzione.

 

Lo stesso Draghi, al di là di quanto viene fatto trapelare dal suo entourage sulla «totale indisponibilità», non avrebbe in cuor suo chiuso ancora la porta. Lo si intuisce da diversi particolari. Ieri sulla Stampa è uscito un articolo che, citando fonti di governo, sottolineava come il decreto di fine luglio fosse «lievitato» fino a 23 miliardi dai dieci inizialmente ipotizzati. Come a dire: se il governo andasse avanti ci sarebbero margini per interventi davvero incisivi. Altrimenti occorrerebbe limitarsi alla ordinaria amministrazione.

 

Ma ci vorrebbe una compattezza che, nei fatti, ancora non c’è e difficilmente tornerà. Non solo tra i partiti e il premier o tra i vari parner della maggioranza. Ma all’interno delle stesse formazioni politiche. Nel Pd un’ala vuole tenere dentro i Cinquestelle a tutti i costi, un’altra ha già voltato pagina. Nella Lega il dualismo tra governisti e insofferenti resiste sottotraccia. Nei Cinquestelle la finta unità è sconfessata di continuo. Davvero quei senatori che hanno esultato scompostamente in Aula quando la capogruppo Castellone ha criticato a 360 gradi l’azione del governo sarebbero pronti, oggi, a votare nuovamente la fiducia? L’impressione del premier è che il discorso di Conte, sicuramente meno rude nei toni rispetto a quello pronunciato alla vigilia dello showdown in Senato, rappresenti solo un modo elegante per scaricare su Palazzo Chigi la responsabilità della rottura. Ecco, se queste sono le condizioni, il no di Draghi resta fermo. E l’unica chance di una sua permanenza al governo sta nelle pressioni internazionali. Per dovere, per necessità. Non certo per i partiti. E fortissimamente di malavoglia.
 

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