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Regione Lazio, resa dei conti nel Pd. Il retroscena dopo le amministrative: democratici spaccati

Daniele Di Mario
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Nel Pd Lazio parte la resa dei conti. Le fibrillazioni cominciate con le candidature del vicepresidente della Regione Daniele Leodori e dell'assessore alla Sanità Alessio D'Amato alle primarie per scegliere il candidato a succedere al governatore Nicola Zingaretti, si trasformano in un vero e proprio malcontento dopo la sconfitta subìta nel Lazio alle ultime elezioni amministrative. Sotto accusa il segretario regionale Bruno Astorre, esponente di spicco di AreaDem, la corrente di Dario Franceschini.

RISSA DEMOCRATICA
Lo scontro va in scena nella direzione regionale convocata lunedì, con il vicesegretario regionale Enzo Foschi (corrente Zingaretti) e Claudio Mancini (cui fa riferimento il sindaco di Roma Roberto Gualtieri) molto critici sulla conduzione del partito laziale. Terreno di scontro il cattivo risultato alle elezioni comunali, ma anche la conduzione del percorso che porterà alle primarie. «Il partito deve trovare prima un programma e un perimetro della coalizione-fanno notare manciniani e zingarettiani - dopodiché dovrà trovare unità su un candidato e verificare con gli alleati il percorso per eventuali primarie. Il segretario Letta ha fermato i congressi regionali proprio per evitare divisioni prima delle elezioni, figurarsi se le primarie diventano un congresso Pd».

ZINGARETTIANI ALL'ATTACCO
Durissimo Marco Miccoli, ex coordinatore della segreteria nazionale quando al Nazareno timonava Zingaretti. «Queste primarie non ancora convocate ma già cominciate non mi convincono, anzi mi vedono fortemente contrario- scrive su Facebook-Abbiamo perso le amministrative nel Lazio, non avremo più la spinta della candidatura di Zingaretti, non abbiamo un quadro di alleanze certe, peraltro in un quadro di fratture provocate da scelte di governo nazionale che stanno producendo gravi fibrillazioni». «Fratture- dice Miccoli - che si replicano sugli stessi temi: lavoro, sociale, scuola, ambiente. Di fronte a tutto questo, senza aver possibilità di lavorare a questi nodi, ci si propone una conta, una sorta di congresso di partito ma senza politica». Infine l'affondo: «Non sono l'unico a elencare queste preoccupazioni, molto meglio di me in molti le hanno rappresentate. Ma nelle conclusioni, il segretario ragionale Astorre, non solo non le ha raccolte, ma ha addirittura rilanciato il percorso non ancora formalizzato, aprendo alla possibilità di rottura dell'unità del partito in un momento drammatico come questo. Ognuno si assuma le proprie responsabilità. O si dirige il partito o si dirige la propria parte di partito. Entrambe le cose non si possono fare».

I PROTAGONISTI DEL MALCONTENTO
Una linea condivisa dai vicesegretari regionali Sara Battisti e Enzo Foschi, ma anche da big del Pd regionali come Claudio Mancini (Gualtieri) e Massimiliano Valeriani (Zingaretti). Anche Base riformista (che fa riferimento al ministro della Difesa Lorenzo Guerini) è sulla stessa linea, come pure alcuni esponenti delle province come De Angelis (Frosinone), La Penna (Latina) e Refrigeri (Rieti). L'accusa è grave: Astorre, nonostante la sconfitta alle Comunali, si muoverebbe solo per garantire la propria corrente. Accusa ovviamente respinta da segretario regionale che ribadisce il metodo delineato lo scorso 31 maggio al tavolo di coalizione: primarie aperte (anche con più candidati Pd) dopo aver delineato il perimetro dell'alleanza e il programma. Una road map che non convince però chi oggi fa sentire il proprio malcontento e che racconta di un segretario «isolato». «Anziché pensare a una corrente - viene spiegato - si dovrebbe pensare all'unità del Pd come richiesto da Letta, definendo linea politica, programma, perimetro delle alleanze e facendo sintesi tra i candidati Pd alla presidenza come si è fatto a Roma e si sta facendo in Sicilia e Lombardia dove il Pd ha un unico candidato». «Senza linea politica e con primarie di conta interna e di pacchetti di tessere si rischia la sconfitta - è il ragionamento - Fermiamo questa assurda giostra sui nomi e torniamo a ragionare di politica, non di nomi. Si convochi una grande Agorà di due giorni per raccontare i dieci anni di governo, ma soprattutto per discutere nel Pd con gli amministratori e i territori ma anche oltre il Pd con i movimenti, la società civile e le realtà sociali ed economiche». L'obiettivo è la «ricostruzione del centrosinistra», includendo liste e movimenti civici protagonisti delle elezioni comunali negli ultimi anni.

ALLEATI SPIAZZATI
Nel frattempo gli alleati guardano perplessi alle dinamiche del Pd Lazio. Italia Viva, per voce della consigliera regionale Marietta Tidei, chiede una pausa di riflessione per trovare una sintesi. Carlo Calenda ha già detto che Azione non parteciperà a tavoli di coalizione per le primarie. Mentre a sinistra l'eurodeputato Massimiliao Smeriglio insiste sulla necessità di fare chiarezza su programma e confini della coalizione prima di parlare di nomi e chiede «responsabilità» al Pd.

LA SCELTA DEI 5 STELLE
Differente la linea che trapela dal M5S. I pentastellati nel Lazio hanno già deciso da che parte stare e sosterranno Daniele Leodori. Di Alessio D'Amato candidato governatore non vogliono neppure sentir parlare. Anzi, viene sottolineato come il rapporto instaurato in giunta regionale con Leodori sia ottimo e come il programma di governo sia stato portato avanti insieme per mesi con profitto. Avanti con Leodori insomma. Mentre il Pd Lazio litiga e si spacca dopo il ko alle Comunali, gli alleati prendono posizione. Al netto degli equilibri nazionali. Cosa accadrà se Conte dovesse decidere per uscire dal governo? E se alla fine Letta dovesse decidere per primarie di coalizione con un candidato Pd unitario? E cosa faranno Azione di Carlo Calenda e Italia Viva di Matteo Renzi a livello nazionale (e quindi regionale). Troppe incognite - fanno notare i detrattori della linea della segreteria regionale- per pensare alle primarie.

SEGGI E CORRENTI
Nel frattempo il Pd deve fare i conti col dibattito sulle correnti. Dario Franceschini domenica scorsa le ha difese a spada tratta, mandando su tutte le furie gli zingarettiani chelo accusano di pensare solo ai posti in Parlamento. Il commento di Roberto Morassut è tranchant. «Le correnti organizzate in un partito sono un'illusione ottica - scrive il deputato Dem su Facebook - Danno la sensazione del pluralismo ma vincolano la libera espressione delle persone e spingono alla loro autocensura per prudenza o opportunismo, producono conformismo. I grandi leader, a partire da De Gasperi e Moro, le contrastarono. Nel Pci c'erano ma i loro leader si guardavano bene da organizzarle e badavano a non scadere le frazionismo. Nel Psi erano molte e rissose e questo ha sempre indebolito il socialismo italiano con conseguenze non banali per l'Italia. Insomma, si può avere un pluralismo di idee che non coincida con le correnti. Questa dovrebbe essere la scommessa del Pd», che - sostiene Morassut «per vincerla deve darsi una morfologia e farsi campi esso stesso. Un pluralismo di idee, di forme partecipative e di persone, prima che di potere. Oggi è indiscutibilmente il contrario. Il nostro pensiero è debole e liquido, mentre le forme partecipative rigide e chiuse». Accuse gravi che rievocano le lotte di potere interne per le candidature alle prossime politiche, quando - con l'attuale legge elettorale, il taglio del numero dei parlamentari e il Pd intorno al 20% - i Dem non potranno rieleggere tutti gli uscenti. E AreaDem-la corrente di Franceschini - rischia di pagare un prezzo salatissimo. Anche nel Lazio. 

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