Beppe Grillo tradito dai suoi "miracolati". Il M5S consuma l'ultimo parricidio
E poi viene il giorno in cui cominci a sentirti un estraneo in casa tua. E non importa se quelle mura le hai edificate tu. Conta solo che i tempi sono cambiati e non sei riuscito a stare al passo. Sei solo una presenza ingombrante e fastidiosa. Come quei nonni che parlano, parlano, ma nessuno più li ascolta. Ognuno, ormai, fa di testa sua.
Dev’essersi sentito così Beppe Grillo al termine della sua paradossale, confusa e inconcludente tre giorni romana. Era arrivato per riportare ordine nel Movimento, se ne è ripartito con la consapevolezza che la sua moral suasion non sortisce più alcun effetto. Peggio: nella sua creatura politica il sentimento più diffuso è l’insofferenza nei confronti del fondatore. Perché dopo le giravolte, l’attaccamento alla poltrona, le faide e le scissioni, il Movimento 5 stelle ha introiettato anche il vizio peggiore della politica tradizionale: l’ingratitudine.
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Il post comparso sui social di Paola Taverna (e addebitato a un «errore di un collaboratore»...) ha rappresentato un flash di verità: «Il Movimento non è tuo, Beppe. Noi siamo tutti con Conte». I fatti hanno confermato con crudezza quelle parole. A partire dal «complottone» ordito ai danni del fondatore: le sue frasi usate da De Masi in un’intervista al Fatto per mostrare plasticamente ai militanti chi fosse il vero responsabile delle umiliazioni subìte da Draghi e per riportare Conte al centro della scena.
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Così Grillo, dopo essersi sentito tradito da chi credeva amico (lo stesso De Masi, il direttore del Fatto Travaglio) e dai suoi «miracolati», furiosi per la conferma del tetto dei due mandati, ha abbandonato il campo. Ha rinunciato alla riunione con i membri pentastellati del governo e ha tolto il disturbo. Ferito anche nell’orgoglio: all’incontro con i senatori ad attenderlo nell’anticamera c’era il solo Cioffi. Gli altri erano distratti o in ritardo. Che differenza con i «bei tempi», quando c’era la fila per un selfie o solo per una battuta. Anche perché, va detto, pure del repertorio comico non è che sia rimasto un granché. Le solite stilettate ai giornalisti, sempre più stanche e ripetitive, qualche guizzo isolato («Conte se ne va con Di Maio»), altre uscite che hanno strappato giusto risate di circostanza («scusate, squilla il telefono, è Draghi»).
La stessa diatriba sul doppio mandato è significativa. Lo strumento che, ufficialmente, dovrebbe servire a evitare che nascano dei professionisti della politica più attenti a quello che avviene nel Palazzo che nella società, aveva nelle intenzioni del fondatore soprattutto un’altra funzione: quella di evitare che si affermassero nuove leadership in grado di fare concorrenza alla sua. Ora, però, nessuno più condivide la regola. E tutti contestano il potere di Grillo di decidere vita e morte di intere carriere istituzionali.
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È lo stesso motivo, peraltro, che causò lo scontro con Conte un anno fa. L’avvocato aveva varato uno statuto in cui a Grillo restava sostanzialmente la funzione di soprammobile. Il comico andò su tutte le furie e strappò qualche potere in più. Oggi quella struttura che creava una sorta di «diarchia» sta dimostrando tutta la sua inadeguatezza. Conte si sente imbrigliato in un meccanismo che non gli consente di condurre l’azione politica come vorrebbe. Non può mollare il governo e non può garantire ai fedelissimi la rielezione per il terzo mandato. Il gioco ha retto fino a quando l’ex premier non vantava neanche il controllo dei gruppi parlamentari. Ora che Di Maio ha levato le tende e i superstiti sono al 90% dei contiani di ferro, tutto è cambiato. Conte reclama un potere a 360 gradi e il gruppo parlamentare si fida molto più di lui che di Grillo. Il fondatore, preso atto della situazione, deve decidere come concludere la sua avventura politica. Se accontentarsi del contratto di comunicazione siglato col Movimento o provare a far saltare il banco e giocarsi l’ultima carta rimasta nel mazzo, il barricadero Di Battista. Un tempo sarebbe bastato un suo schiocco di dita per cambiare tutto. Ora gli tocca trattare senza truppe. Sic transit gloria mundi.