M5S, i più fedeli a Luigi Di Maio derisi e insultati sulle chat dai pro Giuseppe Conte
Insultati sulle chat, tagliati fuori dalle decisioni, derisi sui social. «Lo chiamavamo il metodo-Conte, una violenta campagna d'odio per screditarci». È un'altra realtà quella che viene a galla dai racconti dei deputati e dei senatori che hanno seguito Luigi Di Maio e sono usciti dal M5S. Una sorta di mobbing parlamentare, il tentativo di delegittimare chiunque non condividesse le scelte dell'ex presidente del Consiglio. Molto più dunque dei soliti veleni, qualcosa che va oltre. «Siete un tumore da estirpare», ci scrivevano su Whatsapp, rivela Vincenzo Presutto, vice presidente della Bicamerale sul federalismo fiscale, uno dei senatori presi di mira sin dalla prima ora. Le divergenze all'interno del M5S ci sono sempre state. Ma dalle polemiche che si consumano in qualsiasi partito alla caccia alle streghe, alle frecce al curaro scagliate sui social, ce ne corre. Un'aggressione continua, cominciata nei giorni dell'elezione di Mattarella, quando lo scontro fratricida finì sotto gli occhi di tutti.
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Che fra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte non ci sia mai stato uno scambio di amorosi sensi è stato sempre sin troppo evidente. Le prime scintille fra i due scoccarono nell'istante stesso in cui Beppe Grillo, fino allora molto critico sulle capacità politiche dell'avvocato, gli consegnò inopinatamente le chiavi del Movimento. Una nomina molto discussa, di cui si sta occupando ancora la giustizia ordinaria. Nessuno se lo aspettava. Né Di Maio, né Davide Casaleggio, prima vittima sacrificale dell'inatteso connubio, una rito celebrato con la benedizione di Nina Monti, che iniziò in questo modo ad esercitare la sua influenza sull'ex comico. Ma lo scontro destinato a scavare un solco profondo tra i due schieramenti fu quando Di Maio, che inizialmente aveva spinto per portare Mario Draghi in Quirinale, virò su Sergio Mattarella. «Luigi in quei giorni era rimasto costantemente in contatto con noi, aveva il feedback del Parlamento, a differenza di Conte che se ne stava chiuso nelle sue stanze circondato dal suo cerchio magico», ricorda Presutto. Fu allora che da via Campo Marzio partì l'ordine tassativo: «Scatenate la guerra...». Come andò a finire quel cosiddetto "venerdì nero" lo sappiamo bene. Conte, in accordo con Salvini, decise a tarda sera di puntare sulla 007 Belloni e ispirò il famoso tweet in cui Beppe Grillo esultava per l'approdo al Colle di una donna. «Guarda caro Beppe che ti sei sbagliato, sei fuori strada - lo avvertimmo - qui tutti rivogliono Mattarella...», svela un piccolo retroscena il senatore campano. Risultato: i dimaiani finirono sulla lista nera ma conquistarono il cuore del presidente rieletto. E Conte si chiuse sempre più nella sua piccola torre d'avorio, affidando ai suoi fedelissimi Gubitosa, Ricciardi e Crimi il compito di lanciare strali.
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Chi non gli dimostrava cieca fedeltà veniva messo all'indice. «Era ormai divampata la guerra in Ucraina, e qualcuno sulla nostra chat scrisse: "siamo come la BrigataAzova Mariupol"», ricostruisce quel clima un ex deputato grillino (che ci chiede però di non fare il suo nome per non essere di nuovo aggredito sui social). Seguirono giorni molto difficili per i dissidenti. Dopo il primo esodo di fuoriusciti M5S, a Palazzo Madama ci fu il riassetto dei posti: a Paola Taverna venne assegnato uno scranno in una fila più alta. Apriti cielo! La senatrice romana prese carta e penna e di suo pugno scrisse una lettera all'Ufficio di presidenza per riavere il suo posto, cosa che dopo poco ottenne. Nel frattempo continuarono gli insulti sui social, gli sguardi in cagnesco. Da una parte i contiani, dall'altra "il partito di Mattarella": Primo De Nicola, attuale capogruppo della nuova formazione Insieme per il Futuro, Vincenzo Presutto, Antonella Campagna, Fabrizio Trentascoste e Simona Nocerino. I senatori più in vista, ai quali veniva imputata la colpa di aver sostenuto la rielezione di Mattarella. Gruppo che con il passare dei giorni saliva di numero e stringeva rapporti sempre più stretti con i vari Tabacci, Marcucci, Orfini e Verducci. Si preparava, insomma, il terreno per la "svolta". La sostituzione di Vito Petrocelli alla presidenza della Commissione esteri di Palazzo Madama e il pessimo risultato alle amministrative hanno fatto il resto. La risoluzione sulle armi è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E siamo arrivati così ai giorni nostri. Alla scissione. Scelta politica ma, come sostiene Presutto, anche "obbligata": «Se la nostra colpa, con la guerra alle porte e la pandemia che ancora ci minaccia, è quella di aver lavorato per lo Stato e per la stabilità, allora questa colpa noi ce la prendiamo tutta».
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