Caos M5s, Giuseppe Conte: "Restiamo in maggioranza". Ma adesso è in un vicolo cieco
Giuseppe Conte è in un vicolo cieco. La scissione di Luigi Di Maio lo pone di fronte a un bivio: restare o abbandonare la maggioranza? In entrambi i casi corre un rischio altissimo. Deve riuscire ad arginare il crollo di consensi per non venire spazzato via alle prossime elezioni politiche. Il leader convoca di prima mattina un vertice con i big del Movimento 5 Stelle. Appuntamento nel quartier generale di Campo Marzio a due passi da Montecitorio. Una riunione di fuoco, con alcuni esponenti pentastellati che hanno espresso apertamente tutte le loro paure: «Così viene giù tutto». Alla fine, dopo ore di riunione, è lo stesso Conte ad illustrare ai cronisti qual è la linea: «Il sostegno a Draghi, così come l'alleanza euro-atlantica, non è mai stata messo in discussione. Anche ieri, con le nostre istanze che chiedevano un coinvolgimento del Parlamento, siamo stati messi molto in difficoltà, ma il nostro appoggio non è venuto meno». Eppure c'è chi non nasconde i propri dubbi, come il deputato Stefano Buffagni: «Restare nel governo? È uno dei temi da affrontare».
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Al momento, però, la scelta non poteva essere che confermare il sostegno a Draghi. Strappare adesso vorrebbe dire dar ragione a Di Maio, che ha accusato Conte di aver fatto mancare il sostegno all'esecutivo in una fase internazionale molto delicata, finendo per mettere in discussione l'appartenenza dell'Italia alla Nato e alla Ue.
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Conte, però, è consapevole che la permanenza al governo getta tutto il Movimento in un cono d'ombra. Soprattutto ora che i dimaiani hanno occupato idealmente l'area dei moderati. Così, in serata, di fronte alle telecamere di Otto e Mezzo, mette le mani avanti: «Resteremo al governo finché saremo in grado di tutelare gli interessi degli italiani. Sentirò Draghi in settimana, lo andrò a trovare e gli parlerò». Una sottolineatura importante. Avrebbe potuto assicurare un sostegno incondizionato fino al 2023. Ma ha preferito non farlo.
Conte sa che uscire dalla maggioranza non è affatto facile. Se strappasse adesso finirebbe per rompere con il Partito democratico e si consegnerebbe ad Alessandro Di Battista. L'ex parlamentare grillino dice di essere rimasto molto amareggiato da Di Maio, con il quale un tempo condivideva tutte le battaglie politiche, come quando presero la macchina e guidarono fino a Parigi per sostenere le battaglie dei gilet gialli. «Luigi ha fatto le sue scelte - dice oggi deluso - O è cambiato lui o mi sono sbagliato io». E picchia duro: «Governare con tutti per comode poltrone è un ignobile tradimento». Minimizza, invece, il presidente della Camera Roberto Fico: «La scissione è già il passato». Poi aggiunge una frase al vetriolo: «È stata un'operazione di potere, non un'operazione politica».
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Il capo del M5S però non ha solo un problema di collocazione politica. Beppe Grillo è sempre più irremovibile: non è disposto a concedere alcuna deroga al limite dei due mandati. Chi è in Parlamento dal 2013 non potrà più candidarsi. Poi c'è la grana dei numeri alla Camera e al Senato, dove il Movimento non ha più la maggioranza relativa. Adesso il primo partito è la Lega. Di Maio ha fatto mancare 51 deputati (compreso lui) e 11 senatori.
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Così ora il M5S conta 105 parlamentari a Montecitorio e 61 a Palazzo Madama. Il gruppo di Insieme per il futuro così si chiama la nuova forza politica del ministro degli Esteri- è già realtà alla Camera. È ancora in costruzione, invece, al Senato, dove ha bisogno di un simbolo di un partito che si è presentato alle ultime elezioni. Ci sarebbe l'accordo con Bruno Tabacci, pronto a prestargli quello di Centro democratico.
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Di Maio intanto resta in silenzio, nonostante Conte lo inviti ad «interrogare la sua coscienza» sull'opportunità di dimettersi da ministro. Ieri mattina è andato al Quirinale per la consueta colazione prima del Consiglio europeo, poi è partito per la Serbia, non partecipando al primo Cdm da ex M5S. Si è recato a Belgrado per incontrare il suo omologo, Nikola Selakovic. In agenda diversi temi: dai rapporti bilaterali all'allargamento Ue, fino alla crisi ucraina.