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Di Maio lascia i 5 Stelle, "se cambi partito..." Quando il ministro attaccava i voltagabbana: parte l'umiliazione social

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Giada Oricchio
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Statista o voltagabbana? Luigi Di Maio finisce sbeffeggiato dai social. Se i politici italiani notoriamente non hanno memoria di cosa dicono pur di farsi eleggere, la Rete conserva tutto e non butta via niente.

Nel giorno della risoluzione al Senato sulle armi all’Ucraina, il ministro degli Esteri ha formato il movimentoInsieme per il futuro” (tanto chi ha avuto, ha avuto, ha avuto... chi ha dato, ha dato, ha dato... scurdámmoce 'o ppassato, Simme 'e Napule, paisà!) operando la scissione con il Movimento 5 Stelle. Ha sfilato al furioso presidente Giuseppe Conte 62 parlamentari (51 alla Camera e 11 al Senato), in gergo sportivo è un “cappotto”. Roba da fight club.

C’entra la mannaia dei due mandati, ma è un’altra storia. L’ex bibitaro (secondo gli avversari) Di Maio - folgorato dalla personalità di Mario Draghi - si è innamorato della politica e ha spiegato la mossa operata, ça va sans dire, con sofferenza: “Dovevamo scegliere da che parte stare della storia. I dirigenti del Movimento hanno rischiato di indebolire l'Italia, di mettere in difficoltà il governo per ragioni legate alla propria crisi di consenso, per recuperare qualche punto percentuale, senza neppure riuscirci. La guerra non è uno show mediatico, è da irresponsabili picconare il governo. No alle ambiguità”.

Responsabilità e coerenza, le parole più amate dai politici. Sulla carta. Già perché il web ha rigurgitato le dichiarazioni del primo Di Maio, quello di lotta e non di governo. Sulla pagina Facebook del ministro si legge ancora un post dell’11 gennaio 2017: “Se vieni eletto con il M5S e scopri di non essere più d’accordo, hai diritto di cambiare forza politica. Ma ti dimetti, torni a casa e ti fai rieleggere combattendo le tue battaglie. Chi cambia casacca tenendosi la poltrona, dimostra di tenere a cuore solo il proprio status, lo stipendio e la carica”.

Cita pure l’art. 160 della Costituzione del Portogallo sulla perdita del mandato per chi si iscrive a un partito diverso da quello delle elezioni. Scripta volant, verba manent. A Giggino non glielo hanno detto. Andiamo avanti. Il 7 gennaio 2017 twitta: “Vieni eletto e poi cambi casacca? In M5S paghi 150.000 euro. Su questa regola il Pd ha fatto ricorso in tribunale e perso”.

 

Poi ci sono i video contro la troika, contro la moneta unica con la raccolta firme ai banchetti (“ci sarò pure io”, grazie per l’onore) per andare fuori dall’euro, quelli in cui invocava l’impeachment per il presidente Sergio Mattarella e quelli sui voltagabbana del Parlamento. Una nemesi. “In Italia oltre i furbetti del quartierino, ci sono i voltagabbana. Dal 2013 al 2017 ci sono stati 388 cambi di partito – diceva in una clip M5S -. Le peggiori porcate sono state approvate grazie ai voltagabbana. Per loro conta la poltrona, il megastipendio e il desiderio di potere. Un vero e proprio mercato delle vacche, va fermato” concludeva con sorriso di superiorità morale. Si deducono alcune cose: i parlamentari che lo hanno seguito sono rare arabe fenici e non semplici vacche, alla Farnesina si siede per terra, lavora gratuitamente per il bene della Repubblica ed è un umile servo delle istituzioni anziché un ministro con portafoglio. Da mandare a “futura memoria” per il gruppo “Insieme per il futuro”.

Secondo elettori 5Stelle delusi, Di Maio, invece di aprire il Parlamento come una scatola di tonno, ha fatto il pesce in barile per infilarsi in una scatola di caviale beluga.

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