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Il Pd vuole Draghi in eterno. Governo non politico anche dopo le elezioni, il piano dei dem

Dario Martini
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Il Partito democratico è consapevole di non avere chance di vincere le prossime elezioni politiche. Anche se fosse il primo partito - e oggi i sondaggi lo danno al secondo posto dopo Fratelli d'Italia- non avrà mai la maggioranza in Parlamento. Così Letta e compagni si sono già attivati per gettare le basi del governo tecnico ad oltranza. Magari con Mario Draghi, o un nome a lui vicino, ancora al timone. Giorgio Gori, sindaco dem di Bergamo, lo teorizza in un tweet: «Grazie a Dio oggi c'è Draghi, ma poi? Non possiamo correre il rischio che le forze populiste e filoputiniane portino l'Italia fuori strada. Chi oggi sta con Draghi ha il dovere di costruire un'offerta politica che dia continuità alla sua linea».

 

Per Gori, le forze populiste e quelle filoputiniane sono rispettivamente i 5 Stelle e la Lega. Basta leggere l'articolo dell'Huffington Post rilanciato dal sindaco di Bergamo. Il titolo dice già tutto: «Grazie a Dio oggi Draghi il "dittatore" se ne frega di Conte e Salvini. Ma dopo?». Il pensiero di Gori non è isolato nel Pd. Il problema è come assicurarsi che dalle prossime elezioni non esca una maggioranza chiara. Così come è accaduto nel 2018. L'"arma" migliore potrebbe essere la riforma della legge elettorale in senso proporzionale. Enrico Letta lo ha detto candidamente pochi giorni fa: «Se in Parlamento ci saranno una maggioranza e le condizioni per cambiarla, io sono solo felice». Su questo terreno la linea del Pd coincide con quella del M5s. Conte ha assicurato che si «batterà» per il proporzionale. Il leader del Movimento lo ritiene necessario per «evitare un'eccessiva frammentazione».

 

Anche il presidente della Camera, Roberto Fico, in modo alquanto irrituale, ha auspicato la riforma della legge elettorale. Ciò che Conte e Fico non dicono è che la vera motivazione sta nei sondaggi che vedono i grillini in caduta libera. Secondo l'ultima Supermedia di Youtrend condotta per l'Agi, il M5s è il quarto partito con il 13,3%, dietro Lega (15,9%), Pd (21,3%) e FdI (21,5%). Se Letta e Conte hanno posizioni molti diverse sulla politica estera- il primo sostiene Draghi tout court, il secondo non vuole sentire più parlare di armi a Kiev - sulla riforma elettorale sono vicinissimi.

L'uomo di Conte in questa partita è il presidente della Commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia, il quale ha già un testo pronto ad essere votato. «Il Pd ci sta, andiamo avanti tranquilli», gli avrebbe detto l'ex "avvocato del popolo".

 

Ma non c'è solo il proporzionale. Pd, M5s, LeU, Alternativa e altre forze minori di sinistra martedì scorso alla Camera hanno affossato la riforma costituzionale sul presidenzialismo alla francese presentata da Fratelli d'Italia con Giorgia Meloni prima firmataria. Il centrodestra, con Lega e Forza Italia, si è mostrato compatto. Ma i 204 voti raccolti non sono stati sufficienti. Non è un caso che al tweet di Gori abbia subito risposto Guido Crosetto: «Quindi il prossimo livello del dibattito politico dovrebbe essere la costruzione del supporto ad un tecnico?». Il fondatore di FdI è andato dritto al punto. L'unica possibilità per il Pd di restare al governo è all'interno di un esecutivo di unità nazionale o di intese più o meno larghe. Con ministri non politici al suo interno. La prova, secondo Giorgia Meloni, è la bocciatura del presidenzialismo: «Invece di entrare nel merito, hanno votato l'emendamento soppressivo, non hanno voluto nemmeno aprire il dibattito. Se scappano stanno dicendo che vogliono continuare a fare i giochi di Palazzo sulla pelle dei cittadini»

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