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Riforma presidenziale, la sinistra si compatta solo quando dice no

Riccardo Mazzoni
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Il no compatto delle sinistre alla riforma in senso presidenziale presentata da Fratelli d’Italia è l’ennesima conferma che il campo largo a cui sta lavorando Letta è in realtà un controcampo diviso su tutto, che ha la sua unica ragione sociale nel vecchio pregiudizio contro il centrodestra e nel tentativo di non perdere quote di potere assemblando un cartello elettorale purchessia. Del resto, l'atteggiamento complessivo ora del Pd - e prima del Pci, del Pds e dei Ds - sulle riforme istituzionali è sempre stato quello di un partito rigorosamente antiriformista. La proposta Meloni non era perfetta – il costituzionalista Armaroli ha giustamente osservato che il presidente capo dell’esecutivo non può svolgere anche il ruolo di garante – ma aveva almeno il merito di aprire un confronto su un tema che trova un forte consenso trasversale nel Paese.

Arroccandosi sul fronte del no, il Pd ha smentito anche sé stesso, visto che il semipresidenzialismo sul modello francese è stato un suo cavallo di battaglia dai tempi della Bicamerale D'Alema. Il quale, a onor del vero, avrebbe preferito il «premierato forte», ma quando la Lega fece pendere il piatto della bilancia a favore del semipresidenzialismo, si fece garante del testo che la Commissione poi licenziò il 30 giugno 1997. Quel voto sembrò avere definitivamente superato, a sinistra, il pregiudizio che vedeva nell’elezione diretta del vertice istituzionale il grimaldello per il ritorno del cosiddetto uomo forte. D’Alema, oltre a ricordare che quel modello esprimeva l’orientamento prevalente in tutta Europa rappresentando quindi un valore profondamente democratico, per motivare la bontà della scelta fece l’esempio del Portogallo, dove le forze democratiche - dopo la fine della dittatura - si accordarono per ripristinare, tra le prime libertà costituzionali, proprio l’elezione popolare del capo dello Stato. E aggiunse che il semipresidenzialismo valorizzava il ruolo dei cittadini e gli strumenti della partecipazione popolare alla vita pubblica. Un ragionamento ripreso successivamente sia da Franceschini che da Tonini, allora braccio destro di Veltroni, che sposò senza mezzi termini il modello francese, sia come legge elettorale maggioritaria col doppio turno, sia come modello istituzionale con il presidenzialismo. Ma quando, nella legislatura successiva, fu il Pdl a presentare quella riforma il Pd di Bersani disse che il tempo delle riforme era scaduto. Una storia che ieri si è puntualmente ripetuta. Dalla Bicamerale D’Alema è passato quasi un quarto di secolo, ma l’esigenza di rendere più efficienti le istituzioni, di garantire la governabilità e di avvicinare la politica ai cittadini resta non solo attuale, ma assolutamente necessaria.

Toccherà al prossimo Parlamento, se vincerà il centrodestra, riannodare i fili delle riforme. In effetti, quale scambio potrebbe essere considerato più plausibile e conveniente per il Paese di quello in cui il centrodestra accetta una legge elettorale a doppio turno - tradizionalmente favorevole alla sinistra - e il centrosinistra accetta l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica, anche se nella versione francese? Si farebbe un deciso passo avanti sulla strada della governabilità e si scriverebbe nella Costituzione formale ciò che la Costituzione materiale ha in parte già messo in pratica con gli esecutivi Monti e Draghi, entrambi a tutti gli effetti «governi del Presidente». Peraltro, oggi l’opinione pubblica ha sempre meno fiducia nelle segreterie dei partiti, e l'idea di poter scegliere personalmente un presidente della Repubblica che sia di fatto anche capo del governo potrebbe costituire un punto di forza in grado di ridimensionare il dilagante astensionismo. Vale, insomma, la pena riprovarci.
 

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