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Europa e frontiere, le ombre sul futuro di Frontex

Riccardo Mazzoni
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La guerra in Ucraina ha messo la sordina alla crisi in cui è precipitata Frontex, l'agenzia per il controllo delle frontiere esterne dell'Ue con le dimissioni del direttore Fabrice Leggeri, giunte in seguito a un rapporto dell’ufficio europeo antifrode su presunte irregolarità nella gestione dei flussi migratori in Grecia. Ma questo clamoroso epilogo di uno scontro che viene da lontano getta in realtà molte ombre sul futuro dell’Agenzia e sul suo ruolo, che resterà comunque cruciale per la sicurezza delle frontiere esterne dell’Unione, anche se è palesemente in atto un tentativo di ridimensionamento delle funzioni. Leggeri, in questo senso, non ha usato giri di parole, dicendo che è ormai ineludibile un chiarimento sul mandato di Frontex, visto che la posizione della Commissione sembra divergere da quella di molti Stati membri, che a Vilnius, ad esempio, hanno deciso di chiedere fondi comunitari per rafforzare i loro confini, anche innalzando muri, mentre ai vertici di Bruxelles si vorrebbe trasformare Frontex in una sorta di agenzia per l’accoglienza dei migranti irregolari. Eppure, la principale missione dell’agenzia consisterebbe «nel gestire efficacemente l'attraversamento delle frontiere esterne e affrontare le sfide migratorie e le potenziali minacce future... garantendo un livello elevato di sicurezza interna nell'Unione».

Dalla nomina del nuovo direttore, prevista per giugno, sapremo quale orientamento prevarrà: se quello per cui Frontex debba limitarsi a monitorare il rispetto dei diritti fondamentali dei migranti da parte degli Stati frontalieri, o invece possa svolgere appieno la sua funzione di law enforcement come sostegno agli Stati membri non solo nel controllo dei flussi migratori ordinari, ma anche quando le migrazioni vengono utilizzate come armi geopolitiche ai confini esterni dell’Unione, vedi il precedente emblematico della crisi tra Bielorussia e Polonia. L’apertura delle frontiere a milioni di profughi ucraini ha provvisoriamente modificato i paradigmi della gestione migratoria, grazie a una comune spinta solidaristica mai vista prima, ma siamo di fronte all’eccezione che conferma la regola, e quando la guerra sarà finita torneranno al pettine tutti i vecchi nodi, compreso, appunto, il ruolo di Frontex, che nel 2016 è stata potenziata per diventare a tutti gli effetti l’Agenzia della Guardia di frontiera, senza però adeguate regole d’ingaggio: un deficit emerso prima nel Mediterraneo e poi sul fronte orientale, quando la Polonia ha schierato il proprio esercito ai confini per contrastare la minaccia ibrida bielorussa. Il paradosso è che il cartello di Visegrad, ossia i Paesi più contrari al principio di solidarietà nelle politiche comuni di asilo, si sono trovati improvvisamente ad essere i più esposti, e questo potrebbe favorire in prospettiva una riflessione comune sugli anacronismi del Regolamento di Dublino, che impone al Paese di primo approdo tutti gli oneri dell’accoglienza. Resta il macigno dell’unanimità, e resta la prevalenza dell’approccio intergovernativo su quello comunitario, ma gli eventi degli ultimi mesi hanno dimostrato che tutta l’Europa è sulla stessa barca. Con un corollario che la Commissione non può però ignorare: se nella stessa barca ci facciamo entrare troppa gente rispetto a quella che può portare, la barca inevitabilmente affonda, e Frontex dovrebbe servire proprio a contrastare i trafficanti di esseri umani, non ad essere l’ancella delle Ong.

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