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Con il caso Petrocelli torna il gelo tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Grillini sempre più spaccati

Claudio Querques
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È uno scontro che continua anche a migliaia di chilometri di distanza. Dall’India, dove si trova in missione, Luigi Di Maio dà indicazioni ai suoi, suggerisce la strategia. Dal suo quartier generale di via Campo Marzio - 400 mq a due passi da Montecitorio, 12 mila euro circa di affitto mensili - Giuseppe Conte studia le contromosse. In gioco non c’è solo la presidenza della commissione Esteri del Senato, il posto che Vito Rosario Petrocelli, volente o nolente, prima o poi dovrà mollare. Ma la credibilità stessa del capo della Farnesina. È in gioco la leadership grillina. Quell’esponente del suo stesso Movimento che flirta con Mosca ha creato al nostro ministro degli Esteri grande imbarazzo. L’idea che a occupare quella posizione apicale di Palazzo Madama sia un «filorusso», e per di più un «contiano», espressione di posizioni che non collimano con la linea seguita dal governo, è per Di Maio - e non solo per lui - un cruccio. Altrimenti non si spiegano le tante telefonate tra Bangalore - dove ieri è stata inaugurata la sede di un nostro Consolato - e Roma. Con annessa rosa di nomi da sottoporre ai capigruppo. La presidenza spetta di nuovo al M5S. Su questo non ci piove. Il ministro grillino si muove con diplomazia, con meno impeto di un tempo. Tiene a freno la rabbia per le uscite a gamba tesa dell’avvocato di Volturara Appula, uscite non concordate, che puntano a mandare in fibrillazione il governo un giorno sì e l’altro pure. Di Maio ha in testa un nome. Vuole che a prendere il posto di chi il 25 aprile scorso twittava «liberaZione», con la Z dell’esercito russo, sia Simona Nunzia Nocerino, senatrice di cui si fida ciecamente. Non vuole bruciarla, però. Aspetta che siano gli altri a candidarla.

 

 

Conte in un primo momento aveva pensato ad Ettore Licheri, uno dei suoi fedelissimi rimasto a piedi dopo aver perso il braccio di ferro con Elisabetta Castellone per la presidenza del gruppo 5Stelle in Senato. Ma il precedente tentativo di far traslocare il senatore siciliano Pietro Lorefice dalla commissione Politiche Ue ad Agricoltura si concluse con un flop. Da qui la scelta di non rischiare e puntare su Gianluca Ferrara. Senonché Ferrara e Petrocelli hanno condiviso per un lungo periodo la stessa linea, costruito insieme il protocollo con la Russia di Putin che prevedeva uno scambio reciproco di informazione e dirigenti. Per contro, Ferrara è un nome che piace alla Lega e a Matteo Salvini, membro della Commissione, come Zanda, Casini, Stefania Craxi, Urso e la Taverna. Da ieri le 20 lettere di dimissioni sono sul tavolo dell’ufficio di presidenza di Palazzo Madama. Protocollate e formalizzate. La palla passa alla presidente del Senato, Elisabetta Casellati e alla Giunta del regolamento. Preso atto dell’impossibilità di continuare a svolgere i suoi compiti i gruppi parlamentari potranno procedere alla nomina.

 

 

Resta da definire se Petrocelli continuerà a farne parte. Per ora si sa soltanto che il senatore tarantino, sul quale pende un procedimento di espulsione dal M5s, aspetterà l’esito del ricorso presentato alla Consulta. Nell’aula al IV piano di Palazzo San Macuto è rimasto a fargli compagnia solo l’ex grillino Emanuele Dessì. Sta dimostrando «Petrocelli un attaccamento alla poltrona da vero professionista - ha commentato, acido, Ettore Rosato, presidente di IV - con il risultato che in mezzo alla crisi internazionale più grave per l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale una commissione fondamentale come quella Esteri di Palazzo Madama non c’è per responsabilità del suo presidente: una vergogna».

 

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