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Da Obama a Macron, gli altri vincono e la sinistra esulta: i segretari dem si imbucano alle feste di tutti

Pietro De Leo
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Esiste soltanto un partito al mondo in grado di vincere due tornate elettorali nello stesso giorno in due Paesi diversi. Il Pd. Che domenica ha trionfato in Francia e in Slovenia. Magia? No. Semplicemente quell’elemento oramai orbitante nella psicopolitica che spinge i dem di casa nostra ad attaccarsi alle vittorie altrui per trovare conforto dai propri guai.

Un bizzarro gemellaggio sancito anche l’altroieri, con Enrico Letta che, ai primi robusti risultati provenienti da Parigi, twittava allegro: "Un grande giorno per l'Europa. Grazie al voto dei francesi noi siamo, tutti insieme, più forti”. Siamo chi?, verrebbe da chiedersi pensando a quel campo largo così difficile da costruire. Tuttavia, c’era anche chi si premurava di guardare a Lubiana, perché tutto fa brodo, ed allora ecco la capogruppo alla Camera Deborah Serracchiani glorificare la vittoria del partito progressista-liberale guidato da Robert Golob: “si ferma la virata sovranista”.

E’ questo, l’ultimo saggio di un’abitudine che oramai dura da svariati lustri, perché da svariati lustri i dem non possono festeggiarne una loro, di vittoria elettorale. E vanno al governo non su esplicito mandato del popolo a una coalizione di cui fanno parte ma solo come conseguenza di ribaltoni e maggioranze fatte col bilancino. L’ultima volta, a pensarci bene, era il 2006 con Prodi, e il PD manco esisteva, c’erano i DS e la Margherita. Perciò, in questi anni, altro non è restato che imbucarsi nelle feste altrui. Magari anche con qualche furbata, peccato veniale.

E’ il caso, per esempio, di Pierluigi Bersani nel 2012. Andò a Parigi per partecipare ad una convention progressista, a circa un mese dalla tornata elettorale che avrebbe incoronato il socialista Francois Hollande. L’allora leader Pd disse: “per una volta noi italiani abbiamo aperto la strada. L’ultimo anno si è portato via il governo Berlusconi. So che siete contenti anche voi: gli amici di Hollande italiani hanno mandato a casa Berlusconi”, disse rivolto all’auditorio del Cirque d’Hiver di Parigi che si sciolse in un applauso. Peccato che “gli amici di Hollande italiani” non è che avessero mandato a casa Berlusconi dopo averlo battuto alle elezioni, non sia mai. Ma il governo di centrodestra era caduto per una crisi interna agevolata da alcune pressioni internazionali. Peraltro, paradosso dei paradossi, mentre Bersani pronunciava quelle parole con Berlusconi condivideva il sostegno al governo tecnico di Mario Monti.

Tuttavia, non è niente in confronto alla tensione di erotismo politico che il Pd ebbe nei confronti dei democratici americani. Già dal nome, che richiama alla storica esperienza d’Oltreoceano. E poi ci furono gli slogan mutuati, senza grande fortuna. Nel 2020, il Segretario Zingaretti scelse, come motto per la campagna tesseramenti, “Non per l’Io, ma per il noi”, molto simile al “Not me. Us” (Non io. Noi) di Bernie Sanders. Qualche mese dopo, l’attuale presidente del Lazio lasciò il Nazareno, devastato dagli scontri interni. Nel 2008, il primissimo leader del Pd, Walter Veltroni, adottò in campagna elettorale “Si può fare”, declinato da qualche burlone del web nel più bonario romanesco “se po ffa’”. L’ispirazione era al mitologico “Yes, we can” di Barack Obama. Solo che Veltroni, alle politiche, prese una batosta tremenda dal centrodestra.

Obama, invece, alle presidenziali qualche mese dopo vinse. E qui troviamo l’apoteosi della piaggeria. Già da prima dello scontro finale per Washington. Il Pd partì con una delegazione di 5 persone (i retroscena di allora narrarono di un certo sgomitare per farne parte) alla volta della convention di Denver, da cui il senatore dell’Illinois sarebbe uscito con l’investitura di candidato. Si aspettavano grandi cose, ma già dall’alloggio in cui furono sistemati dall’organizzazione, un “Country Inn” vicino all’aeroporto a 20 chilometri dal luogo della convention, si intuiva la malaparata. Il disastro d’immagine e il rischio di essere accomodati in piccionaia fu sventato in extremis grazie ai buoni uffici di un’italiana amica dei Kennedy, che riuscì a far ospitare i gitanti democratici nel box riservato alla storica famiglia.

Insomma, una trasferta così e così. Che  però non lenì gli entusiasmi nella fantastica notte elettorale. Il Pd organizzò un evento al Tempio di Adriano a Roma, per aspettare la vittoria di Obama. E grande giubilo quand’essa si materializzò. “Il vento che soffia in America arriverà anche in Italia”, esultò Franceschini. Evidentemente, però, quel vento deve essersi fermato all’Autogrill. Perché il Pd, di lì a poco uscì sconfitto in Abruzzo, in Sardegna, alle Europee, nella successiva tornata di regionali dove perse anche Lazio e Campania. In compenso però, per mutuare una riuscitissima battuta di Arturo Parisi, avevano vinto in Ohio. 

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