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Mario Draghi ha un guaio in Vaticano. Papa Francesco contro le armi: "Mi sono vergognato"

Pietro De Leo
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C'è la Chiesa. E c'è parte del mondo politico. È il fronte che, in questi giorni, si sta esprimendo in dissenso all'aumento delle spese militari, lanciato dalla Nato e raccolto, tra gli altri, dal nostro governo. Ieri, Papa Francesco è tornato sul punto: «Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2 per cento del Pil per l'acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!», ha detto durante l'udienza al Centro femminile italiano. E ancora: «La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari - ha affermato il Pontefice - ma un'altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti, un modo ormai globalizzato, e di impostare le relazioni internazionali». Posizione condivisa anche dalla Cei, il cui Segretario Generale, monsignor Stefano Russo, ha auspicato un «disarmo totale». Al di là della dirompenza del messaggio, è tutto facilmente leggibile, sotto due aspetti. Da un lato, Francesco lungo tutto il suo pontificato ha più volte tuonato contro la produzione e il commercio di armi. Dall'altro, c'è la contingenza del momento, in cui il Pontefice si sta collocando in una posizione terza (ha condannato anche l'invasione russa) e dunque potenzialmente di mediazione.

 

 

Discorso diverso invece per la politica, dove l'allontanamento rispetto all'iniziativa del 2% definisce leadership e sottolineai contorni del dibattito interno alla coalizione e nei partiti stessi. A questo proposito, si registra la perplessità di Matteo Salvini, che si riallaccia proprio al Pontefice: «La via tracciata - ha osservato a Isoradio - è quella del Santo Padre. Non credo che siano le armi a fermare altre armi». E ha sottolineato «sintonia» con il Papa «sulla necessità di ragionare, di risolvere la situazione con una risposta non armata, ma ragionata». Il tema armi, però, sta creando un vero e proprio travaglio all'interno del Movimento 5 Stelle. Ieri, Giuseppe Conte è stato molto perentorio sul punto: qualora ci fosse un nuovo voto al Senato sull'aumento della spesa militare, «il Movimento non potrebbe che votare contro». Parole pronunciate in un'intervista alla Stampa, dove all'osservazione del giornalista che in tal modo cadrebbe il governo, ha replicato: «ognuno farà le sue scelte». Il «no» è stato ribadito anche in video collegamento con il congresso dell'Anpi: «L'Italia non sarebbe un Paese all'altezza della sua carta costituzionale se, invece di investire urgentemente per aiutare famiglie e imprese, lo fa per aumentare le proprie spese militari». Una posizione in aperta contraddizione con quanto avvenuto alla Camera, dove un ordine del giorno al Decreto Ucraina per aumentare le spese militari fino al 2% è stato approvato anche con il voto dei pentastellati. E che, oltre a rilevare sulla dimensione delle alleanze (il Pd ha abbracciato una posizione nettamente conforme alla linea Draghi), su quella del governo (dove proprio il dossier armamenti ha innescato una nuova tensione con Draghi), allarga il solco con il ministro degli esteri Luigi Di Maio. Non è un caso che le sortite di Conte, così perentorie, arrivino proprio nel giorno in cui il titolare della Farnesina è con il premier a Bruxelles, per il vertice Nato.

 

 

E di certo non è un anestetico il commento rilasciato all'Adnkronos da Alessandro Di Battista, che lasciò il Movimento contestando l'adesione all'Esecutivo di unità Nazionale: «A Conte -ha dichiarato l'ex deputato all'Adnkronos - dico di andare avanti: su queste battaglie, se fatte fino in fondo, avrà sempre il mio sostegno». Nella baraonda, intanto, si allunga la telenovela di Vito Petrocelli, presidente della Commissione Esteri, il quale ha annunciato che non voterà più la fiducia al governo. Nonostante le reiterate richieste di dimissioni dal ruolo, lui mantiene la posizione e al momento non è neanche prevista una dimissione in massa degli altri componenti dell'organismo. Tanto che, ieri, è arrivato un appello di Riccardo Villari, che anche lui, nel lontano 2008, fu al centro di una strenua resistenza alla presidenza di una commissione parlamentare, la Vigilanza, dove fu eletto nonostante l'indicazione diverse dell'opposizione di allora. «Non rifarei lo stesso passo», ha ammesso all'Agi, «Petrocelli dovrebbe dimettersi dalla commissione Esteri ma deve essere una sua scelta». Che, a quanto pare, per ora non vuole compiere.

 

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