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Il centrodestra è una non-coalizione. Se continuano le liti addio ai voti

Francesco Storace
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È cambiato il mondo. C'era il non partito grillino con il suo non statuto. Ora ci sono sia il partito che lo statuto. Adesso c'è il non matrimonio tra Silvio Berlusconi e Marta Fascina. E prima o poi dovranno esserci anche le nozze vere. Ma c'è anche quella che è diventata una non coalizione, il centrodestra. Diventata ormai una combriccola litigiosa, dal centro alla periferia. Le crisi nel territorio - e non solo in Parlamento - non si contano più. Le alleanze che reggono nei Comuni e nelle Regioni verso il voto si contano sulle dita di una mano. Un tempo le elezioni amministrative erano sempre viste come il termometro della rivincita. Da troppo tempo a questa parte registrano invece la temperatura della sconfitta. Ecco, dopo il matrimonio per finta, servirebbe un vertice per davvero. In cui si dicano tutto e ricomincino da capo. Se c'è la volontà di farlo per offrire uno schieramento competitivo e gradito agli elettori. E magari passando per una grande assemblea di popolo per consacrare di fronte agli italiani un patto vero e duraturo.

 

 

Sbaglia chi sottovaluta il problema, perché come si è visto alle ultime amministrative - eloquenti i casi di Roma e Milano, ma purtroppo non solo lì - l'arrivo di ogni tornata elettorale non è più salvifico. Si compattano i partiti con i simboli, ma scappano gli elettori con i voti. E gli stessi sondaggi stanno a testimoniare le difficoltà del centrodestra. Per dirla tutta: se Fratelli d'Italia continua con la sua buona performance ma a scapito degli alleati che ce l'hanno messo tutta per assottigliare i propri voti, non è che si possano fare passi in avanti. Continuare con le bizze non ha alcun senso politico. La lite quotidiana, il dispetto di Tizio a Caio o a Sempronio, la rivalsa per questo o quell'episodio parlamentare, non servono a nulla: gli italiani osservano e si trincerano nell'astensionismo. Pensare che Silvio, Matteo e Giorgia - come si chiamavano ai vecchi tempi - non si incontrano più dalle elezioni per il Quirinale, che sembrano lontanissime, spiega a sufficienza che così non va. Si può non essere d'accordo, ma se diventa la regola vuol dire che il centrodestra non c'è più. E del resto, proprio dopo la rielezione di Sergio Mattarella, sono stati i leader dei tre principali partiti della «coalizione» a dichiararla sepolta. Frutto della rabbia del momento, ma nessuno ha preso l'iniziativa per spazzare via le nubi. E ci si chiede a che serve continuare così, in una eterna riedizione dell'asilo Mariuccia. In tutta Italia si avverte rumore di sganassoni: in Piemonte si litiga per le commissioni, in Lombardia si minaccia la guida leghista della Regione, nubi su Verona in Veneto, Nello Musumeci è nel mirino in Sicilia, e le amministrative sono alle porte.

 

 

L'anno scorso si disse che i casi controversi si sarebbero potuti risolvere con le primarie, ovviamente nulla di tutto questo è all'orizzonte del centrodestra. Non osiamo immaginare che cosa accadrà il prossimo anno nel Lazio. Disse tempo fa un arguto parlamentare come Gianfranco Rotondi: il centrodestra è solo una cooperativa elettorale. Ora nemmeno quello. Dai leader di uno schieramento che vanta decine di milioni di consensi tra gli italiani, ci si attende responsabilità e non alzate di spalle di fronte alle critiche assieme a ondate di suscettibilità. Se non si vince più, ci si ponga il problema di capire se davvero si potrà primeggiare alle prossime politiche. Cinque anni in regalo alla sinistra non possono essere decisi da leader che devono risolvere i problemi e non distruggere le speranze. Altrimenti saranno i cittadini ad alzare le spalle e non votare più. Il che comincia a succedere troppo spesso.

 

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