Giuseppe Conte, un premier che vive sulla luna: "Funziona tutto". E se qualcosa non va è colpa degli altri
In questi mesi ascoltando Giuseppe Conte parlare in una delle sue conferenze stampa che normalmente sono soliloqui notturni, sempre veniva la curiosità: “Ma Giuseppi ci fa o ci è?”. E' bastato il primo quarto d'ora della conferenza stampa di fine anno in cui il premier magnificava le sue gesta e quelle del governo di luce riflessa, facendosi i complimenti, raccontando che tutto il mondo glieli fa, che la parola “errore” non ha patria nei suoi uffici, dove tutti si spendono per il bene assoluto degli italiani, per riproporre con forza quella domanda: “Ci fa o ci è?”. Perché dopo un anno come quello appena trascorso troverei davvero poche persone disposte a recitare un copione così, e nei confronti di un eventuale Rocco Casalino che l'avesse scritto avrei sentito volare tali vaffa da costringerlo a ricominciare tutto da capo premettendo almeno un “Chiedo scusa se...”.
La risposta a quella domanda mi è arrivata da un video che tutti possono vedere on line del professore Conte che fa lezione agli studenti sulla giustizia civile. Era il lontano 2014, e la politica era ancora distante, Palazzo Chigi al massimo un sogno. Una lezione universitaria, dove normalmente si sente citare un testo. Non dal professore Conte, che ai poveri studenti per 18 interminabili minuti citò solo se stesso. “Mi avvarrò della mia inclinazione scientifica”, esordì davanti ai poveri ragazzi che fra sé avranno detto “ma chissenefrega”. Lui però tirava innanzi come nulla fosse: “cito la mia esperienza di avvocato”. Doveva fare un esempio sul rapporto fra avvocati e clienti? Ecco inevitabile l'auto citazione: “Io lo chiamo il contatto maieutico fra avvocato e cliente”. E via con una serie di “Io ho esperienza”, “Io dico sempre”, “un tempo io l'avevo definito...”, “In quel momento nella mia mente iniziano già a scorrere tutte le norme di legge...”. Che potranno mai avere imparato questi poveri ragazzi a parte di avere avuto davanti il “Signor Io” che si sbrodolava di giuggiole davanti a uno specchio.
Ecco la risposta: ci è, non ci fa. Il nostro premier è proprio così, non recita. Vive di sé, si magnifica ai suoi occhi, ingrandisce a dismisura il proprio ego, coglie nel sibilo del vento lodi sperticate al suo operare. Inutile fischiargli, perché lui non capirebbe. Li coglierebbe come un segno discreto e sonoro della fiducia che tutti hanno in lui: “fanno uscire aria dalla bocca perché sono pazzi di me e vogliono riscaldarmi in giorni così freddi”. O il contrario in estate. Non invidio Matteo Renzi, perché non sarà mai compreso da Conte. D'altra parte come si può parlare a un babà che invece di essere ripieno di rum, è zuppo marcio di se stesso?
Non so se qualche lettore ha perso tempo ieri mattina, ultimo giorno di zona arancione per preparare quel poco che si può a Capodanno, per sentire il discorso di fine anno del presidente del Consiglio. A chi ha bucato l'evento posso dire che non ha perso granché, se non l'occasione una volta di più per capire come purtroppo l'uomo che dovrebbe guidare il Paese in questo momento difficile sia isolato nella sua bolla autoreferenziale sulla luna, da cui vede nulla mai volesse buttare giù lo sguardo. Avrebbero sentito Conte dire e dirsi “Lavoro con disciplina e onore”. Oppure suonare il motivetto preferito che canticchiò il primo giorno: “Avvocato popolo? Sino a ultimo giorno sarà così, sempre fatto interesse italiani”. E di fronte a qualche domanda un pizzico meno adorante, replicare: “Se ho fatto errori? Alla storia lascio la valutazione”. Perché l'ometto è certo di potersi presto specchiare nei libri di storia.
Anzi, pare un pizzico irritato del fatto che ancora non se ne parli e non se ne studi sui banchi di scuola. Ma è perché sui banchi con o senza rotelle non c'è più nessuno, e la scuola è uno dei flop più clamorosi di questo governo: contagi a raffica fino alla strage dei nonni. E ora la difficoltà di riaprire gli istituti visto che il governo nulla ha fatto per rendere possibile e sicura l'operazione e rimediare alla disfatta di questo autunno. Il terreno è scivoloso, e quando sa già che c'è il rischio di non potersi magnificare,
Conte ha sempre una soluzione: scaricare la colpa sugli altri. Prima di Natale ha rovesciato la responsabilità della operazione scuola sui poveri prefetti. E ieri ha messo le mani avanti: “Se, come mi dicono, i tavoli delle prefetture, hanno lavorato in modo efficace, potremo ripartire quantomeno col 50%”, che si traduce così: “se invece non si riuscirà, colpa esclusiva dei prefetti”.
Ma se invece la scuola dovesse riaprire felicemente, potere stare certi che il merito sarà esclusivo dell'ometto. Che ieri ha avuto la faccia di dire che la gestione della emergenza pandemica del suo governo è presa a modello in tutta Europa e in tutto il mondo. L'Italia è in cima all'universo per numero di morti per coronavirus e ha pure le conseguenze economiche più disastrose di tutti gli altri. Come dalla sala della conferenza stampa non si siano levate una dopo l'altra le pernacchie è davvero un mistero. Meno sentendo decine di colleghi iniziare il loro intervento con un ringraziamento al premier per la disponibilità alla conferenza stampa che da sempre a fine anno tutti i presidenti del Consiglio hanno fatto perché è loro dovere. Mancava solo che lo ringraziassero perché anche quest'anno Conte è riuscito a fare arrivare il 31 dicembre, regalandolo agli italiani. Però è arrivato, in condizioni impossibili. E allora auguri ai lettori de Il Tempo. Vale comunque la pena di alzare il calice per essersi messi alle spalle un anno orribile. Quanto al nuovo, chissà: peggio difficilmente sarà. E magari alle spalle riusciremo a metterci anche l'ometto. Auguri!