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Cinepanettone a Catania, la giustizia cade a pezzi sul processo a Salvini

Francesco Storace
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Alla fine bisognerà chiedere il conto. E pagarlo. La farsa giudiziaria contro Matteo Salvini ha i suoi riti – imposti dalla maggioranza del Parlamento – che immancabilmente graveranno sulle tasche del popolo italiano. L’importante sono applausi e fischi contrapposti nel rodeo della democrazia italiana, tutto il resto sono sottigliezze che servono a soddisfare gli istinti vendicativi di una sinistra che non sa come disfarsi del nemico.

Ma ormai è evidente ai più che nessuno riuscirà a dimostrare seriamente che l’ex ministro dell’Interno abbia commesso reati nella difesa dei confini nazionali. Né che per un’azione di governo si debba andare dietro le sbarre.

 

Surreale. Meschino. La legge è uguale solo per alcuni e non per tutti. Togliete quella scritta.

Pianeta Italia – è la constatazione amara – è il luogo dove si può assistere a roba del genere. Accade nella Repubblica di Luca Palamara dove c’è chi vorrebbe gestire con metodi davvero "sinistri" il sistema giustizia. «Ha ragione, ma bisogna attaccarlo»: quelle frasi del magistrato sotto processo a Perugia risuonano anche nell’aula del tribunale di Catania. Eppure bisogna aspettare che Salvini abbia torto, evidentemente.

Ma così tutto crolla e mai come in questo caso quella lastra di marmo piovuta addosso a Giulia Bongiorno è emblema fotografico dello sfascio giudiziario. La senatrice, legale del leader leghista, se l’è vista davvero brutta: e di morale doveva stare senz’altro peggio del suo assistito, di cui pure immaginiamo lo stato d’animo di fronte al giudice.

 

Nel tribunale di Catania è trascinato contro ogni logica un ex ministro che nessuna persona sana di mente processerebbe con quelle accuse, a partire da quella ridicola di sequestro di persona. Al punto che si alza il pubblico ministero a ribadire la richiesta di archiviazione già formulata dalla Procura della Repubblica. Ma il copione non prevede la vittoria immediata dell’imputato eccellente. Lo spettacolo deve continuare.

Eppure, se i clandestini su una nave per pochi giorni rappresentano un reato da espiare con la galera, non si capisce che giustizia sia quella che omette di perseguire il Viminale anche quando il titolare dell’ufficio non si chiama più Matteo Salvini anche quando accadono le stesse identiche cose.

La farsa raggiunge l’apice con la notizia che emoziona gli zombi della politica: Lega Ambiente parte civile e uno continua a grattarsi la zucca interrogandosi sul livello raggiunto dalla Nazione in tribunale.

La farsa andrà avanti ancora per qualche mese. Anziché archiviare definitivamente la pratica, in nome del popolo italiano il Gup di Catania ha deciso per una specie di retata ministeriale convocando come testimoni un po’ di celebrità una volta al mese da qui a dicembre. Con non pochi rischi: «Giuri di dire la verità» sarà l’azzardato invito del magistrato a Giuseppe Conte. Toccheremo tutti ferro. E poi via via Luigi Di Maio, Danilo Toninelli, la ex titolare della Difesa Elisabetta Trenta, l’ambasciatore Maurizio Massari e dulcis in fundo la ministra in carica Luciana Lamorgese... Udienze a rate mensili che finiranno per annoiare l’uditorio a meno di improvvisi mancamenti dei malcapitati.

In tutto questo pazzo mondo, capita persino di dover vedere poche decine di sfigati dell’estrema sinistra contestare come al solito Salvini nella piazza di Catania poco distante da quella del tribunale. E fin qui la commedia non muta. Salvo il poco accettabile affiancamento di quelli del Pd etneo che hanno lasciato intendere che la loro democrazia passa per lo sterminio giudiziario – e magari anche fisico se Salvini fosse passato dalle loro parti per raggiungere il luogo dell’udienza – del nemico.

Non si hanno notizie di azioni simili contro l’opposizione neppure nel Venezuela del compagno Maduro.

E pensare che tutto questo cinepanettone avviene solamente perché così ha preteso la maggioranza dei Senatori. A processo per il nulla con i quattrini di Pantalone. Sembra uno sfottò contro il popolo: invece è macchina giudiziaria in cui chi sbaglia non paga mai soprattutto se indossa la toga.

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