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Matteo Salvini, la sinistra cavalca le inchieste ma l'arma dei pm è sempre perdente

Pietro De Leo
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In principio furono i “49 milioni”, brand giudiziario alla bisogna trasformabile nel proiettile verbale moralista da buttar lì nei talk o in Parlamento (“e allora i 49 milioni della Lega?”, “parlateci dei 49 milioni”). Poi arrivarono le inchieste sul contrasto alle navi che illegalmente facevano ingresso nelle nostre acque traghettando immigrati clandestini. Ora c’è l’epica dei commercialisti. Insomma, l’Italia è una Repubblica (poco) democratica fondata sulla caccia al bersaglio grosso. Matteo Salvini, nel caso. L’ultimo della serie. Di avversari di quella parte di sinistra che, dopo la caduta del Muro, non scelse una socialdemocrazia compiuta ma “la via giudiziaria al potere”, come ebbe modo di comunicare Gerardo Chiaromonte, comunista migliorista, agli ufficiali di collegamento con un Bettino Craxi che voleva traghettare i comunisti in occidente e rimase disorientato da quelle parole.

Cosa avrebbero significato, lo capì un paio di anni dopo. E furono piogge di inchieste, il discredito popolare, le monetine, Tangentopoli  la demolizione del blocco liberaldemocratico, popolare e riformista nella Prima Repubblica garanzia della permanenza nell’area atlantica. Mentre andava montandosi la “gioiosa macchina da guerra” dei post comunisti. Poi venne Berlusconi, e si abbatté l’impeto da scontro finale nel duello politica anticomunista-magistratura. Qualche giorno prima delle elezioni politiche del ’94, su ordine della Procura di Palmi che indagava sui legami tra massoneria e criminalità organizzata, i Carabinieri entrarono nella sede nazionale di Forza Italia a Roma e sequestrarono gli elenchi dei presidenti di Club. Un’iniziativa mai vista.

Così come, vinte le elezioni e divenuto premier, Berlusconi seppe di un avviso di garanzia a suo carico dalla prima pagina del Corriere della Sera mentre a Napoli faceva gli onori di casa in un vertice Onu sulla criminalità. E furono decine di inchieste, spesso affiorate durante campagne elettorali o nel corso di momenti-chiave per la vita politica del centrodestra. Fino alla condanna definitiva, l’unica, del 2013,un “plotone d’esecuzione”, secondo rivelazione (postuma) del magistrato relatore della sentenza in Cassazione. E il voto parlamentare che, in applicazione della legge Severino, defenestrò dal Senato Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, sì, ma anche del centrodestra di cui a quel tempo deteneva la maggior quota elettorale.

Oggi ci risiamo. Il partito del centrodestra con maggior consenso è diventata la Lega e Salvini, sempre per voto parlamentare, è stato consegnato nelle mani dei magistrati cui sarà permesso di sindacare una scelta politica adottata da ministro dell’Interno, quella di non consentire l’approdo di una nave ONG, che trasportava migranti irregolari. E poi quest’ultima novità, l’indagine sui “commercialisti” che a vario titolo prestavano opera professionale alla Lega. Dove la nuova girandola mediatica è facilitata dal fatto che gli arresti domiciliari agli indagati sono stati comminati a dieci giorni da un’importante tornata di elezioni regionali. E pensare che il Pm aveva richiesto al Gip di applicare la misura cautelare oltre un mese e mezzo fa.

Torna quel fattore temporale che richiama ai vecchi racconti di giustizia a orologeria. Tornano le equazioni sbrigative, rapide ad addossare il tutto al “bersaglio grosso”, pur mancando gli elementi. E torna l’incapacità ad apprendere le lezioni del passato. Non sono bastati gli elementi emersi nell’inchiesta che coinvolge Luca Palamara, le intercettazioni che mostravano un certo anelito ideologico ostile di parte della magistratura verso il leader della Lega e la riprova che medesimo criterio in passato fu applicato a Berlusconi. Novità che con una politica forte avrebbero terremotato, finalmente, una stortura della nostra democrazia. Nulla di tutto questo è avvenuto. 

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