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Direzione Pd, l'ennesima farsa di Zingaretti per mantenere le poltrone

Alessandro Giuli
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La strada peggiore che il Pd poteva imboccare? Quella del suicidio assistito d’un mondo che abbandona la propria storia recente di riformismo a vocazione maggioritaria per gettarsi con voluttà nella farsa di una finta Realpolitik. E’ successo ieri nella Direzione del Partito democratico, con il segretario Nicola Zingaretti che ha candidamente ribadito, eludendo ogni riflessione teorica, le ragioni del clamoroso testacoda sul referendum per il taglio dei parlamentari innescato dalla prepotenza populista del Movimento Cinque stelle.

Ecco le sue parole, in estrema sintesi: “Propongo alla Direzione l’indicazione di votare Sì al referendum. Se dovesse prevalere il No non cadrebbe il governo”, ha detto Zingaretti sapendo perfettamente che il governo invece salterebbe per aria se il Pd votasse No ed è questa la ragione principale per cui i democratici – malgrado il dissenso di pochi ma autorevoli e coraggiosi dirigenti – hanno ufficialmente rinnegato la propria contrarietà alla sforbiciata parlamentare in assenza di una contropartita che bilanci lo squilibrio innescato. Risibile, al riguardo, è l’adesione del Pd (suggerita dal segretario) alla proposta di Luciano Violante di “accompagnare la campagna per il Sì al referendum con una raccolta di firme per il bicameralismo differenziato”. Per Zingaretti sarebbe questo, e cioè una lontana e vaga consultazione domestica, un “modo, pur con scelte diverse che ci saranno, di unire il Pd”.

Debole nel merito e nella forma, la posizione assunta riflette un vuoto ideale spaventoso che non promette alcunché di serio e di buono. Il Pd abdica al buon senso senza nemmeno provare a spiegare di aver cambiato idea sull’assetto costituzionale italiano. Perché di questo stiamo parlando: dell’architettura fondamentale di una Nazione sequestrata da una manovra di Palazzo finalizzata a defenestrare temporaneamente l’incombente “pericolo sovranista” scongiurando a tutti i costi le elezioni anticipate. Doveva essere un ribaltone a scadenza ravvicinata, con l’obiettivo dichiarato di disinnescare le clausole di salvaguardia, e si è trasformato nel valzer dell’ipocrisia. Per lo meno la Lega di Matteo Salvini aveva formulato un contratto con l’alleato grillino, in base al quale sia il taglio dei parlamentari sia la riforma della giustizia sarebbero stati vincolati a una preventiva– e per quanto possibile largamente condivisa – riorganizzazione della cornice istituzionale toccata dai provvedimenti in questione. Sebbene fragile e discutibile in sé, anche perché Salvini nell’estate 2019 è stato comunque tentato dall’illusione di votare il taglio e poi andare al voto, l’operazione aveva in partenza il pregio della chiarezza e della complessità procedurale. 

Oggi il Pd preferisce dissimulare il suo fragoroso voltafaccia culturale, facendo finta di poter mettere una pezza a posteriori sulla ferita procurata, pur di restare aggrappato fino al 2023 alle poltrone che s’impegnerà a rottamare per via referendaria. E’ un saggio d’insipienza che si giustifica soltanto con la sopraggiunta e conclamata metamorfosi di un partito non più di sinistra, ammanettato alla consegna di espropriare finché possibile il diritto di far coincidere potere e consenso in un governo omogeneo che rifletta la volontà popolare. Neppure la necessità di eleggere in accordo con l’establishment europeo il nuovo presidente della Repubblica (2022), una scelta già irritualmente condizionata dall’illazione di Giuseppe Conte su un eventuale bis per Sergio Mattarella, può valere come scusa accettabile per sacrificare gli equilibri istituzionali italiani imboccando una strada senza ritorno. La peggior direzione, appunto.

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