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Blitz sugli 007. L'ultimo colpetto di Stato del monarca Conte

Franco Bechis
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Quando a luglio si polemizzò sulla intenzione del governo di prorogare lo stato di emergenza come poi è stato fatto fino al 15 ottobre, il premier Giuseppe Conte spiegò di non volere restringere gli spazi di democrazia e il ruolo del Parlamento che la rappresenta. Anzi, disse: «La proroga dello stato di emergenza  non incide sul potere di emanare decreti da parte del presidente del Consiglio. È, di fatto, un presupposto necessario, ma non sufficiente. Serve una fonte di rango primario, ovvero un decreto legge, che prevede un coinvolgimento del Consiglio dei Ministri e poi del Parlamento. Il decreto legge c'è stato ed è stato approvato dai ministri di Conte.

 

Poi il testo è arrivato in Parlamento. Hanno iniziato a discuterlo in dodici deputati lunedì, e ieri - martedì - il governo attraverso il ministro dei rapporti con il Parlamento Federico D'Incà, ha posto la questione di fiducia sull'intero testo, che quindi è da prendere o lasciare senza un solo barlume di autonomia del Parlamento. Sì, in teoria quella fiducia può anche essere negata. Ma siamo uomini di mondo: con quel voto Conte chiedere a centinaia di deputati di maggioranza e non solo se preferiscono andare avanti a prendersi la loro indennità e i rimborsi spese che valgono poco meno di 15 mila euro al mese o se invece preferiscono tornare al lavoro che quasi tutti non avevano prima di essere eletti. Perché è chiaro a tutti che se cadesse così un governo non se ne potrebbe fare un altro e anche Sergio Mattarella sarebbe costretto a sciogliere anticipatamente la legislatura. 

Dunque si è trattato di una recita di altri tempi, di pure scenette di propaganda cui ci ha abituato questo presidente del Consiglio che è un attore nato anche se purtroppo nei copioni che diligentemente impara non c'è mai un pizzico di verità nemmeno per errore. Il Parlamento non conta nulla, Conte ormai si è abituato in questi mesi a regnare più che a governare, e la scenetta di ieri né è amara testimonianza.
In realtà qualche atto in più alla commedia avrebbe potuto aggiungerlo il premier, anche per rendere un pizzico più credibile la sua vocazione democratica (che è pura fiction). Solo che nell'esercizio dei suoi superpoteri aveva lasciato andare un po' troppo la mano, e in quel decreto legge sullo stato di emergenza sul Covid aveva inserito una norma adattissima ai suoi superpoteri ma assai estranea da quella materia. Un codicillo che gli permetteva di prolungare di altri quattro annetti per l'emergenza le nomine dei capi dei servizi segreti con cui si trovava in sintonia (è lui a guidarli). Intendiamoci, degnissime persone che farebbero bene il loro mestiere per anni. Ma quella «prorogatio» in beffa perfino a qualsiasi successore che non avrebbe avuto la libertà di scegliersi gli uomini più di fiducia per compiti tanto delicati, era un po' troppo. Perfino dentro il gruppo di maggioranza che sostiene il governo, quei M5s che tanto hanno dimenticato delle loro origini, del loro credo e delle loro bandiere cedendo alla realpolitik, ma ogni tanto hanno un sussulto di dignità e se le ricordano. 

 

Così una assai tenace come la giovane calabrese Federica Dieni, che siede nel Copasir e maneggia la materia, non ha voluto adeguarsi ai comodi di Conte. Ha presentato un bell'emendamento soppressivo di quel passaggio del decreto Covid, e trovato altri 50 che la pensavano come lei pronti ad aggiungere la loro firma. La questione è divenuta grossa, secondo il tam tam dei parlamentari dietro a quella scelta ci sarebbe stato addirittura il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che ha negato sdegnato in un comunicato. Ora sono convinto che se fosse libero Di Maio farebbe non uno sgambetto, ma assai di più a quel Conte da cui è stato tradito fino a dovere cedere la guida del movimento politico in cui è nato. Ma non è così sprovveduto da compiere un passo falso così clamoroso, di cui subirebbe conseguenze assai peggiori. Semplicemente quella prepotenza legislativa di Conte non andava giù nemmeno a gran parte della sua maggioranza. Ed essendo lui un vero democratico, ha risolto la questione in modo assai semplice: ha tolto loro la voce. Amen. Già che c'era ha pensato di farlo anche su un altro testo che doveva essere esaminato dal Parlamento: il decreto semplificazioni. Anche lì fiducia: o fanno come vuole lui perfino sulle virgole, o tutti a casa senza i 15 mila euro al mese. Non si può dire che Conte non sappia difendere il suo potere con le unghie e con i denti, ma è anche colpa della debolezza altrui. 

 

Ecco, queste scenette bisognerebbe ricordarsele quando si discute del prossimo referendum sul taglio dei parlamentari come fosse una questione decisiva per il nostro sistema politico. No, non lo è. Gli eletti non contano un fico secco e al massimo rappresentano il leader che gli ha regalato quella poltrona. Il loro ruolo è nullo. Dieci, cento, mille non fa alcuna differenza, né la loro presenza aumenta o diminuisce il tasso di democrazia. Quella non c'è, e nel regno che siamo diventati vale solo chi porta la corona sul capo.

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