Il centrodestra si fa male da solo
Caro direttore, tra gli intrighi mediatico-giudiziari nostrani e quelli della finanza internazionale, si va consolidando il «Fattore D», inteso come Destra, che sta facendo di tutto per evitare che la propria coalizione vada a governare, nonostante la vittoria che oggi qualsiasi sistema elettorale le garantirebbe. Una situazione molto simile a quella della Prima Repubblica quando, nel 1979, il giornalista Alberto Ronchey coniò il famoso «Fattore K» - dal russo Kommunizm (Comunismo) - riferendosi alla cosiddetta conventio ad excludendum dal governo del Pci, al tempo secondo partito italiano. In quel momento, la lungimiranza di uomini come Moro e Berlinguer rimise in moto la democrazia. Ma di quelle stature politiche non vi è più traccia e sono invece gli stessi partiti del centrodestra, Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, che con la loro guerra fratricida, tra individualismi narcisistici, invidie e giochini da sottopolitica, stanno sancendo la propria autoespulsione.
Vediamoli uno alla volta, iniziando ovviamente da Forza Italia che, nel bene e nel male, ha segnato la storia politica degli ultimi vent’anni. Oggi, tra molti debiti e poche idee, a prevalere è l’Azienda, peraltro divisa in faide interne che inficiano perfino la sagacia del fondatore Silvio Berlusconi, rispetto ad una classe dirigente forzista di prim’ordine che, quantomeno in Parlamento, potrebbe ancora giocare un ruolo determinante per fare una vera opposizione. Il partito-azienda del Cavaliere è, invece, un naufrago pronto ad afferrare qualsiasi ciambella di salvataggio. E Silvio, chiuso in un cerchio magico sempre più stretto, media senza mediare e mente a se stesso credendo che in questo modo arriverà al Quirinale mentre tutti sanno, anche i suoi fedelissimi, che è solo un sogno. L’ars mediatoria non è mai stata una sua prerogativa, c’è ancora chi ricorda quando si convinse di aver portato a casa 5 ministri su 18 totali del Governo di Enrico Letta per poi scoprire dal Tg (probabilmente il suo) che i componenti di quell’esecutivo erano invece 23, con la sua partecipazione quindi diluita. Fu l’inizio dello «sciogliete le righe» dopo un ventennio di scena politica.
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Quanto alla Lega, l’innamoramento degli italiani per Matteo Salvini è durato, almeno per il momento, una sola stagione, certamente non quella estiva. Il leader del Carroccio non è riuscito a capitalizzare il grande successo delle elezioni europee del maggio 2019, peraltro propiziatorie di una politica comunitaria innovativa. E ha finito per isolarsi, mandando avanti personaggi come Claudio Borghi e Alberto Bagnai che, però, hanno agevolato dei pericolosi distinguo interni rispetto a personalità del calibro di Giancarlo Giorgetti, Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, ormai focalizzati verso la società civile e non più su quel mondo un po’ chiuso e molto autoreferenziale, sia pur di qualità, di tanti assessori leghisti.
Resta Fratelli d’Italia con la sua presidente Giorgia Meloni, premiata dai sondaggi, che cerca di disancorarsi dal suo vecchio mondo dei «Gabbiani», la visionaria corrente di Colle Oppio del Fronte della Gioventù dove è politicamente nata con il suo tutor Fabio Rampelli. Il partito è ora guidato da quella che è soprannominata la «generazione Atreju», con la segretaria personale Patrizia Scurti, il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida e l’amico Giovanbattista Fazzolari, che tutto e tutti scrutano e controllano. E pensare che, con un piccolo sforzo ancora, Giorgia potrebbe diventare un’aquila, se solo aprisse le ali e volasse alto, raccogliendo intorno a sé nuove intelligenze e personalità.
Ma a ben guardare, quello delle persone non è solo un problema della Meloni bensì dell’intero centrodestra. Infatti i mondi che contano davvero, corpi intermedi, intellettuali, imprenditori, professionisti, a parte talune interlocuzioni estemporanee, non hanno mai avuto un serio coinvolgimento. Eppure il centrodestra ha vinto in passato anche grazie a personalità come Urbani, Fisichella, Martino e portando avanti battaglie comuni e condivise. Ora c’è la grande sfida della legge elettorale, ma pure su questa le divergenze tra i partiti della coalizione sono lampanti: maggioritario sì, ma forse conviene anche il proporzionale, così come in molti altri temi, dall’Europa al Mes, dal fisco alle nomine, vedi il pasticciaccio brutto per l’Agcom e per la Privacy.
Se i tre leader vanno avanti in questo modo, per l’attuale coalizione di maggioranza il Fattore D sarà determinante e continuerà a governare indisturbato. Perfino con uno come Conte a Palazzo Chigi o, chissà, con un Calenda che, come Arlecchino, ha servito più padroni, tradendo prima Renzi e poi Zingaretti, e ora guarda al centro, sperando di farci dimenticare i suoi passaggi disastrosi al Mise, in Alitalia e all’Ilva. Tutto fa brodo.