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Stato di emergenza e legge elettorale: l'Italia va a rotoli ma pensano ai seggi

Riccardo Mazzoni
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Incredibile ma vero: mentre l’Italia resta il fanalino di coda per debito e pil in attesa di un autunno rovente dal punto di vista sociale, e mentre gli sbarchi di migranti sono ripresi in modo incessante, con i servizi che segnalano diecimila prossime partenze dalla Libia, il governo si barrica nel bunker e mette sul tavolo due priorità una più grottesca dell’altra: il prolungamento dello stato d’emergenza e la riforma della legge elettorale. Con un’aggravante pericolosa: anche se la proroga dell’emergenza fosse limitata a tre mesi invece dei cinque annunciati da Conte, le previste elezioni del 20 e 21 settembre dovrebbero tenersi praticamente senza campagna elettorale o, ancora peggio, potrebbero subire un altro rinvio, fatto senza precedenti nella storia della Repubblica.

D’altra parte, l’allergia dell’avvocato del popolo (e dei Dpcm) alle regole della democrazia è ormai tristemente nota, ed essendo il voto di settembre un appuntamento ad alto rischio per la tenuta del governo, c’è da aspettarsi di tutto. Il caos e l’emergenza costituiscono infatti l’acqua in cui il premier riesce a nuotare meglio: prima ha approfittato del Covid per scongiurare l’implosione già in atto della sua maggioranza, e ora ipotizza una seconda ondata epidemica con l’obiettivo neanche troppo nascosto di blindare la poltrona e scavallare l’anno.

Una strategia di cui è parte integrante l’approvazione a rotta di collo alla Camera della nuova legge elettorale, un vaccino contro le elezioni anticipate in caso di incidenti parlamentari sempre più incombenti. La strada è tracciata: giovedì in commissione Affari costituzionali scadrà il termine per la presentazione degli emendamenti, e il testo dovrebbe approdare nell’aula di Montecitorio lunedì 27 luglio. Un’accelerazione fortemente voluta soprattutto dal Pd, che però non piace né ai renziani né a Leu, e che rischia di trasformarsi in un Vietnam parlamentare, con la maggioranza che potrebbe finire sotto in diversi dei voti segreti previsti in aula. E’ anche possibile quindi che il blitz di mezza estate fallisca al primo tornante, ma il dato più significativo di una vicenda che è l’emblema stesso di una maggioranza inquieta, è la conversione-regressione del Pd al proporzionale, sia pure con sbarramento (per ora) alto.

Sarebbe sbagliato paragonare questa giravolta alla vendita dell’anima al diavolo, visto che il Pd un’anima non l’ha mai avuta, essendo stato fin dalla nascita un assemblaggio di potere fra potentati provenienti da culture politiche diverse, ma una cosa almeno è certa: siamo di fronte alla sepoltura definitiva della vocazione maggioritaria messa in campo da Veltroni come lo strumento essenziale per modernizzare la democrazia italiana. Una vocazione che aveva un solo, imprescindibile corollario elettorale: il sistema maggioritario.

Ma i sacri principi della sinistra si scontrano sempre con le convenienze politiche contingenti, e la riforma in senso proporzionale altro non è che il prolungamento con altri mezzi della guerra al Papeete che portò un anno fa all’accordo scellerato con Grillo, e ora dovrebbe servire per sbarrare la strada a una vittoria del centrodestra a trazione sovranista. Per portare a compimento un’operazione del genere, agli occhi dell’intellighenzia rossogialla, l’attuale Rosatellum non dà affatto garanzie, nonostante la parte maggioritaria sia ridotta ai tre ottavi di seggi assegnati a chi prende più voti nei collegi uninominali.

Ma se i sondaggi dicono il vero, il centrodestra vincerà le prossime elezioni con qualsiasi legge elettorale, per cui quella del Pd rischia di essere solo una mossa tattica di corto respiro che butta a mare tutta la strategia elaborata al Lingotto nel 2007. La realtà è che il Pd, da presunto faro del riformismo, è diventato una ditta aggrappata ai dividendi del potere sulla pelle del Paese: i danni provocati da questo governo, ad esempio, sono drammatici, e il ritorno al proporzionale rischia di infliggerne un altro ugualmente grave, togliendo per legge agli elettori il diritto di scegliere da chi farsi governare e istituzionalizzando il mercimonio che in questa legislatura ha già prodotto due ribaltoni inguardabili. Non c’è però da meravigliarsi: il Pd non ha infatti mai rotto il cordone ideologico con i retaggi che furono del vecchio Pci, per cui il potere viene sempre prima di tutto: quando si conquista va mantenuto a tutti i costi, e quando gli elettori lo assegnano ad altri, allora è un vulnus irreparabile alla democrazia. Per cui il ritorno al proporzionale val bene un Lingotto. L’importante è restare al governo, anche se tutto intorno sono solo macerie.

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