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Luca Palamara, lo squalo in toga finito nella tonnara

Luca Palamara

Ora che è infangato ("Come il tonno", disse Cossiga) piange: "Vedere pubblicati momenti intimi fa male". È accaduto a innocenti per colpa sua e dei suoi colleghi. Ma queste chat finalmente dissacrano la magistratura

Franco Bechis
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Luca Palamara che fu il magistrato più potente di Italia, cui doveva rivolgere supplica qualsiasi suo collega desideroso di fare carriera, oggi è finito nella polvere, prima indagato ed ora rovinato dalla pubblicazione di tutte le sue chat e sms con magistrati, politici e giornalisti. Ieri come un bambino che non conosce prudenza e silenzio, ha twittato: «Assistere alla pubblicazione dei momenti più intimi della propria vita privata che coinvolgono estranei fa sempre male. Oggi sono dall’altra parte e accetto tutto questo perché non ho nulla da nascondere. Sono storture però sulle quali occorre nuovamente riflettere». Ed è stato ovviamente seppellito da una valanga di contumelie, perché i social non sono terreno su cui può misurarsi chi si trova nelle sue condizioni. Il povero Palamara è bersaglio fisso di chiunque ora che non conta più un fico secco, dileggiato ancora peggio di come fece Francesco Cossiga in quel celebre video del 2008 nella trasmissione di Maria Latella : «Palamara come il tonno. Lei ha una faccia da tonno...».

Mi spiace per come viene trattata la persona, anche se negli anni della sua onnipotenza ha goduto di favori, benessere e riverenza che prima o poi nella vita presentano il conto. E fa quasi tenerezza vedere accusare il colpo della pubblicazione di quei discorsi privati poco commendevoli chi o direttamente o attraverso la cerchia dei colleghi della sua stessa potentissima corrente ha fatto pubblicare centinaia di pagine di intercettazioni altrui. Ma non mi scandalizza quel che ho letto nelle sue conversazioni: ne avrei lette di identiche nella maggiore parte delle chat di uomini e donne che siano stati potenti in questi anni. Il potere a Roma si costruisce in quel modo, e Palamara il suo l’ha fondato sulla rete di favori, sulle mille discussioni per equilibrare consensi e decisioni, cercando di evitare nemici acerrimi che prima o poi te la fanno pagare, magari vantandosi pure di qualche fanfaronata del tutto inventata che poteva accrescere nella sua cerchia l’ammirazione e il rispetto.

 

 

 

Faccio un esempio, tratto dalla informativa che contiene le sue chat con i giornalisti (che lo vezzeggiavano, perché lui era fonte preziosa): a un certo punto commenta con un collega magistrato con favore un articolo de La Stampa che contiene passaggi assai utili ai suoi magheggi per la nomina del nuovo procuratore capo di Roma. Il collega che parla con lui se la ride: «L’hai pagato quel giornalista perché scrivesse quelle righe?», e Palamara (immagino) gonfiando il petto minimizza: «No, siamo molto amici». Qualche giorno dopo a chiamare Palamara è proprio quel giornalista de La Stampa, e dalla conversazione intercettata si capisce che i due si sentono per la prima volta nella loro vita, che il giornalista usa il «lei» nella conversazione e che Palamara facendo il piacione lo invita a dargli del «tu», come lui fa con tutti i giornalisti. Quindi non erano affatto amici, né conoscenti, ma anche quella fanfaronata poteva essere utile ad accrescere il potere personale nella cerchia che più gli interessava: quella dei colleghi magistrati cui sembrava l’uomo chiave per il proprio destino. Quel che abbiamo letto nelle chat del magistrato non è così dissimile da quanto in analoghe intercettazioni di altri potenti della politica, degli affari e anche del giornalismo abbiamo letto da sempre. Per un motivo semplice: i magistrati sono come tutti gli altri uomini e donne, le loro carriere e i loro stipendi, il loro potere ha la stessa identica liturgia di ogni altro gruppo di potere esistente. Non sono meglio o peggio, sono identici a tutti gli altri. E sono molto, molto politicizzati con rarissime eccezioni.

Tutti dobbiamo accettare le regole della giustizia, perché è la sola tassa possibile da pagare alla libera convivenza in una qualsiasi comunità. Non c’è altro modo, ma non c’è nulla di divino nella giustizia e nulla di mitico e sacrale in chi la amministra. Non esiste nemmeno la verità, perché si tratta di verità giudiziaria e come la si raggiunge è spesso un terno al lotto. Quando racconto la mia esperienza personale da imputato, potrei citare decisioni che ritengo ingiuste di una corte nei miei confronti, ma questo lo dicono anche tutti i colpevoli e non sarebbe credibile. Invece una volta a un processo di primo grado mi accorsi che chi mi querelava - dirigenti di una multinazionale - aveva perfettamente ragione, perché avevo compiuto un errore tecnico nell'articolo. Il mio avvocato difensore mi disse: «Non dica nulla, perché lei lavora in un piccolo giornale, e gli altri sono grandi potenti. Ci è capitato un giudice molto di sinistra, magari avrà un occhio di riguardo». Di più: da colpevole fui assolto con formula talmente piena, e i miei querelanti castigati con durissime parole nelle motivazioni, che non osarono nemmeno fare appello. Un terno al lotto: mi fosse capitato un giudice molto sensibile alle ragioni delle multinazionali, mi avrebbe condannato. Nello stesso modo da cronista seguendo la giudiziaria ho avuto l’impressione che non fosse solo una fantasia quella delle toghe rosse. Ma ho conosciuto anche l'esatto opposto: un pm che mi disse: «Adesso a quei comunisti gli facciamo un c... così».

A qualcosa oggi forse possono servire quelle chat di Palamara: ad aprire gli occhi ai cinque stelle che li hanno divinizzati pensando che fossero sacerdoti della dea Giustizia. Non esiste alcuna religione di questo tipo, anzi. È un po’ duro di comprendonio il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che insiste nel nominare magistrati in posti che loro non competono e poi è costretto a pretenderne le dimissioni perché salta fuori una chat o una sciocchezza compiuta facendo un lavoro per cui sono impreparati. A forza di fare cadere pedina dopo pedina, magari lo capirà anche un testone come Bonafede...

 

 

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