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Feltri replica a Papa Francesco: se non ci sono bimbi nelle case non è colpa di cani e gatti

Vittorio Feltri
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Non è colpa dei cani e dei gatti se non ci sono bimbi nelle case. Ma di una certa disaffezione alla natalità che sembra ammorbare la nostra specie. A taluni manca banalmente la voglia di procreare, afferrano un presente evanescente di passioni e mode effimere e coltivano l’orticello delle loro pulsioni senza mai sognarsi di sacrificare un istante del giorno e della notte a un neonato urlante che porterà il loro nome nel mondo. Ad altri invece manca la possibilità di generare e attendono per anni nel limbo della genitorialità soffrendo e pregando che ogni volta sia quella buona, fino a quando il desiderio di essere madri o padri non si consuma insieme al falò della giovinezza e dell’età fertile. Dico questo perché ho appena riletto le parole del Pontefice sulla cultura «veterinaria» imperante. Adottiamo cani e gatti a profusione - dice in estrema sintesi il Santo Padre - ma non ci preoccupiamo di mettere al mondo creature nostre. Ho grande stima di Francesco per sapere che parla da pastore di anime. E comprendo la brama del padre della chiesa di vedere crescere attorno a sé famiglie numerose e appagate. Ma vorrei denunciare che l'amore per gli animali è solo una benedizione in questi tempi bui. Una moltiplicazione di felicità e non una sottrazione ai danni di un bene superiore.

Uomini e donne hanno compreso semplicemente che gli animali sono creature in grado di provare sentimenti sinceri e ricambiare il poco che ricevono – basta a volte una carezza con una dedizione totale, a tratti commovente. Non sostituiscono un figlio ma riempiono il vuoto se il figlio non c'è. In altri casi sono la costola mancante, quel pezzettino che serve perché una famiglia si completi nell’amore e nell’aiuto reciproco. Non c’è uguaglianza di affetti ma semplice compenetrazione. Ho cresciuto cinque figli e li ho amati infinitamente. Ma la familiarità e tenerezza che ho provato per la fauna che mi circondava ha raggiunto livelli inimmaginabili. Ero solo un bambino e già spiavo i gattini della campagna alla ricerca del loro mistero insondabile e quando da ragazzino ricevetti in dono il mio primo micio, lo chiamai Vecio ed ebbi un sussulto di riconoscenza. Mangiava con me, dormiva con me, seguiva il flusso dei miei pensieri meglio di un amico in carne ed ossa. Piansi come un disperato il giorno in cui la morte se lo portò via, domandandomi se il dolore per quel micetto vispo così affine al mio sentire si sarebbe mai sedimentato. Delle galline conobbi l’intelligenza straordinaria che nessuno avrebbe ammesso mai e dei cani lo spirito materno che li fa accomodare ai piedi di un bambino e poi accudirlo come un figlio a casa, a scuola e nelle notti buie quando la luce si spegne e resta solo la paura.

È altresì vero che l’umanità di una persona, la pietas di cui tutti vantiamo esperienza, si misura dal comportamento che si ha verso gli animali. Un uomo che non ami gli uccelli, le anatre, i cavalli, difficilmente avrà il giusto trasporto per le persone. Io per primo nutro diffidenza quasi antipatia e intolleranza per chi guarda con aria circospetta un cane o un gatto trattandolo male o giudicandolo un orpello da accomodare in salotto. Non è un caso che lo stesso Francesco abbia posto l’accento sul rispetto di tutte le creature. «Il cuore è uno solo e la stessa miseria che porta a maltrattare un animale non tarda a manifestarsi nella relazione con le altre persone» (Laudato si, capitolo 92). Aggiungo che cani e gatti sono diventati i custodi dei nostri anziani. Un vecchio che prende in braccio un cockerino vedrà sparire la solitudine dalle sue stanze. Il vuoto della casa sarò riempito dalle loro chiacchiere. E il freddo del corpo caduco scaldato da un abbraccio peloso. La chiamano pet teraphy perché tutto ormai si declina in inglese. Ma consiste nel rigenerarsi e curarsi avendo accanto un animale. Quanto beneficio restituisce la mano posata sulla testa di un gatto! O il suo sguardo che fruga nell’anima e ci dialoga lievemente senza bisogno di profferire parola.

Oggi i labrador entrano negli ospedali con la benedizione dei dottori, qualcuno viene ammesso nelle terapie intensive dove il tempo scorre lento e si misura sull’incedere della flebo. E c’è stato un paziente morto in corsia, poco tempo fa, che ai medici premurosi che gli stavano accanto ha chiesto solo di vedere il suo barboncino per guardarsi negli occhi e promettersi di ritrovarsi insieme all’altro mondo. Senza arrivare alla scuola di pensiero della veterinaria francese Helene Gateau che qualche tempo fa disse che è meglio un figlio di un cane (certo rompe meno le balle e ha meno pretese), bisogna dare atto all’esperienza quotidiana che spesso la compagnia di un cucciolo è più soddisfacente di quella di un uomo e non richiede finzioni. Gli animali poi sono parte del Vangelo. Ma è vero che non tutti i preti sono come San Francesco. Alcuni storcono il naso ogni volta che vedono una bestiola. Sono persuaso che se le chiese aprissero agli animali, la domenica mattina, correrebbero molti più fedeli a sentire messa. Il guaire dei cuccioli smorzerebbe la predica soporifera del sacerdote e i fedeli sarebbero più felici e accomodanti. Basterebbero un cane e un gatto per parrocchia e la penitenza sembrerebbe più lieve. In sintesi: un cavallo mi ha salvato in una notte di buio e smarrimento. E di un topo sono diventato amico sulla poltrona del salotto di casa mentre gli passavo il formaggio e ridevo della sua paziente attesa. Figurarsi se posso immaginare una vita senza animali. Piuttosto mi faccio monaco e poi vago nelle strade alla ricerca di un lupo con cui parlare.

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