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Russia, Fabbri: "Putin e le ombre su Zelensky, l'obiettivo è dividere l'Occidente"

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Edoardo Sirignano
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«Mosca utilizzerà l'attentato per dividere l'Occidente e lanciare sospetti su Kiev. Altrimenti dovremmo concentrarci sull'Asia Centrale e aprire un altro fronte. La paura per l'Isis, intanto, potrebbe ricompattare la Nato». A dirlo Dario Fabbri, analista geopolitico e direttore di Domino.

Quale è l'effetto globale della strage al Crocus City Hall?
«La Russia si concentrerà molto sulla fantomatica pista ucraina, sebbene non ci sia alcuna prova per dividere i già molto affaticati sostenitori di Zelenskyj. Il quesito che intende porre il Cremlino è: siete sicuri che l'Ucraina rappresenta il bene e non i terroristi? Molto, dunque, dipenderà da come sarà intercettata questo tipo di propaganda».

Al momento quale è stata la risposta dei Paesi Nato?
«Fino a ora picche, ma c'è puro chi, come Macron, si è dichiarato disponibile a collaborare per far luce sull'accaduto».

Si arriverà a un'escalation?
«In queste ore ci sono bombardamenti massicci su Kiev, ma il Cremlino, almeno per adesso, non è in grado neanche di rompere il fronte del Donbass. Un'escalation produce distruzione, ma non è detto che possa consentire alla Russia di spingersi chissà dove sul terreno».

Esiste ancora la possibilità che vengano inviate truppe della NATO?
«Fino a ora solo la Francia ha lanciato questa opzione e tutte le hanno risposto in modo negativo. Parigi appena percepisce uno scadimento della partecipazione americana si lancia nell'horror vacui. L'obiettivo è sfruttare un vuoto per estendere la propria influenza. Al momento l'ipotesi che vengano inviate truppe della Nato la vedo difficile da percorrere. Diversamente il discorso nel medio e nel lungo periodo».

Come andrà a finire, intanto, il conflitto?
«Dipende molto dagli americani, che vogliono parlare con il Cremlino, indipendentemente dall'attentato. Putin lo sa bene. Sei media statunitensi rilanciassero la pista del terrorismo islamico come nemico comune, sarebbe un ulteriore segnale in tal senso».

Potrebbe influenzare in questo percorso una vittoria di Trump?
«Pur mantenendo una distanza ideologica, la sua narrazione è legata all'abbraccio con Mosca, ma in America conta di più quell'opinione pubblica che elegge i presidenti e quell'apparato, molto più longevo di chi si succede alla Casa Bianca. Detto ciò, prevale un'idea abbastanza condivisa: distrarsi troppo nella guerra in Ucraina va a beneficio della Cina. Washington ha bisogno di parlare con i russi per dividerli dai cinesi. Questa è una manovra che sarà realizzata, a prescindere da chi vince le elezioni».

Nel Pacifico c'è già un'altra guerra?
«Tutti i Paesi intorno alla Cina, tranne rari casi, sono vicini agli Usa e questo ci ricorda che il quadrante per loro è l'Indo-Pacifico, ma non sanno come uscire dalla questione ucraina, né intendono avvantaggiare in alcun modo Putin».

Nel caso di un accordo tra il Cremlino e Washington, l'Europa non rischierebbe di trovarsi sola?
«L'Europa non esiste. Ci sono Paesi con politiche molto diverse tra loro. Appena gli americani segnalano un disimpegno, gli europei vanno in ordine sparso: Macron promette truppe, i polacchi bloccano il grano, gli ungheresi, sopravvalutando i poteri di Trump, sperano di estendere la loro influenza in Transcarpazia, regione con una notevole minoranza magiara».

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