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Senato, Casellati vince la causa per diffamazione contro Il Fatto Quotidiano e Marco Travaglio

Gianni Di Capua
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La presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati ha vinto la causa di diffamazione contro i giornalisti del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, Ilaria Proietti e Carlo Tecce. La sentenza del Tribunale «accerta la responsabilità dei convenuti per il carattere diffamatorio, nei limiti e per le ragioni esposte in parte motiva, degli articoli del 17.11.2019 a firma Carlo Tecce, del 20.6.2020 a firma Ilaria Proietti, del 10.12.2019 a firma Marco Travaglio, nonché degli articoli dell'11.12.2019 e del 12.12.2019; per l'effetto condanna i convenuti in solido Società Editoriale Editrice il Fatto Spa, Marco Travaglio, Carlo Tecce (nei limiti di 5.000) e Ilaria Proietti (nei limiti di 10.000) al pagamento, a titolo di risarcimento dei danni, a favore dell'attrice Maria Elisabetta Alberti Casellati di 25.000; condanna Marco Travaglio, Carlo Tecce e Ilaria Proietti ex art. 12 l. 47/1978 al pagamento rispettivamente di 2.000 ciascuno Marco Travaglio e Ilaria Proietti e di 1.000 Carlo Tecce; ordina la pubblicazione delle sentenza per estratto a cura e spese dei convenuti su Corriere della Sera, Il Mattino, il Gazzettino e il Fatto Quotidiano. Condanna altresì i convenuti in solido a rimborsare alla parte attrice le spese di lite, che si liquidano in 940,90 per spese, 7.254 per onorari, oltre Iva, se dovuta, Cpa e 15,00% per rimborso spese generali».

Eppure domenica scorsa Marco Travaglio, su Il Fatto Quotidiano rivebdicava la bontà della sua campagna: «Ci siamo difesi portando le prove di tutto quanto avevamo scritto e ora il giudice riconosce che "i fatti storici narrati sono veri", "la critica è legittima", "non si vede quale sia il contento diffamatorio": sul vitalizio extralarge (comprensivo - caso unico nella giurisprudenza domestica del Senato - dei quattro anni al Csm); sul giro del mondo al seguito del pargolo musicista; sulla resistibile ascesa della figlia esperta di bici. Quindi il giudice "esclude la campagna mediatica" diffamatoria.

Ma alla fine le dà un contentino perché (in 200 articoli) abbiamo usato tre vocaboli: "bestemmia" (il "perdio" sfuggito alla gentildonna), "marchette" (i sospetti di favori ai rampolli) e "minacce" (i preavvisi di azione legale recapitati a domicilio a due nostri cronisti, mentre il sottoscritto, ritenuto meno impressionabile, li ricevette in redazione)... Ovviamente appelleremo questa (minuscola) parte di sentenza, perché rivendichiamo il diritto di sentirci minacciati da una minaccia di azione legale».

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