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Parlare di Putin in tv non vuol dire essere filorussi

Arnaldo Magro
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«Non è che se uno ascolta un puntiniano in tivu diventa lui stesso un putiniano. Lo spettatore mica è così scemo». Così un piccato Urbano Cairo esce in difesa della linea editoriale presa dalla quasi totalità dei suoi programmi di La7. Rei, secondo alcuni fonti autorevoli, di alimentare tensioni, financo all’interno dell’esecutivo semplicemente invitando giornalisti ed esponenti filo-russi. Della medesima accusa, vengono tacciati anche i contenitori Mediaset.

Da Del Debbio a Giordano, da Palombelli a Brindisi, l’ospite russo, non manca mai negli studi del Biscione. Che poi venga platealmente sbertucciato ed insultato come fatto da Del Debbio è più che altro merito del conduttore, che non frutto di una strategia comunicativa studiata. In Rai a scatenare il putiferio, si sa, è stato il professor Orsini Alessandro, un emerito Carneade non più tardi di un mese fa. Fuortes, silente ad in tutti questi mesi di reggenza, ha tuonato dunque inappellabile. Dando prova provata di una vitalità che umanamente rassicura.

Pare però che l’input ben preciso sia partito dal numero uno di Palazzo Chigi. È stato Mario Draghi a chiedere alla tivu di Stato, di seguire la sua linea atlantista. Esser nati in Russia non può certo rappresentare un discrimine. Non può esserlo in un Paese democratico. Tutti godono di diritto alla parola.

Certo, richiedere maggiore responsabilità all’intervistatore parrebbe altresì doveroso. Per evitare soliloqui privi di contraddittorio, ad esempio. In questo caso ci si addentra però nell’alveo della deontologia giornalistica. Anche perché poi da casa lo spettatore giudica da solo, mica è così scemo, come dice Cairo. O forse credete, come disse il potentissimo Ettore Bernabei, che «il telespettatore medio italiano, ha l’intelligenza di un undicenne». Fate vobis.

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