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Russia, legittimare Putin è l'unica via per la pace. Paragone: è realpolitik

Gianluigi Paragone
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Al di là delle dichiarazioni poi c’è la politica. Che si muove su un terreno dove la ragion pratica è costretta a liberarsi dai buoni sentimenti e fare i conti con quel che la realtà libera dalle tare. Vladimir Putin ha stravinto le elezioni. Avrebbe potuto accontentarsi di vincerle, ma nella logica di chi muove una guerra vincere non basta. Ha stravinto lasciando sul terreno il corpo di Navalny, il cui peso si accascia sulla sabbia del mondo occidentale che si indigna e si dimentica assai velocemente. Putin sapeva che quell’oppositore sarebbe stato un simbolo “a tempo” più che una minaccia elettorale; ancora una volta il suo calcolo ha calpestato l’umanità.

Del resto l’Europa dovette già fare i conti con altri omicidi politici - da Anna Politkovskaya a Boris Nemcov - e con altre forzature militari russe, ma nel fare i conti ha sempre preferito, per convenienza e calcolo, la soddisfazione dei suoi bisogni, quindi l’approvvigionamento energetico. I prodromi dell’invasione in Ucraina c’erano tutti, erano evidenti; ma- ripeto- l’Europa ha ritenuto più conveniente non rompere con l’energy power costruito pazientemente da Putin dopo le liberalizzazioni di Eltsin. A essere precisi, nemmeno l’invasione in Ucraina era servita all’Europa per recidere immediatamente il rapporto con il presidente russo: sì le armi, sì le dichiarazioni di condanna, sì le sanzioni, ma quando si trattò di toccare la parte energetica la prudenza prevalse; fintanto che qualche manina, con le cattive, fece saltare il gasdotto del nord, il North Stream.

 

La realpolitik costringe a fare i conti, come dicevo, con la tara dei fatti, anche se è cinico ammetterlo: così come l’Europa ha “armato” Putin, oggi la stessa Europa - ma ancor più vale per gli Stati Uniti - non può non leggere le elezioni russe al netto delle nostre emozionali dichiarazioni. Putin avrebbe vinto anche con avversari più scomodi, ma lo scenario di guerra “imponeva” a Putin la vittoria plebiscitaria. Che pur essendo appesantita da fatti di violenza e dall’ombra della morte di Navalny non scalfisce minimamente il potente idem sentire tra il popolo russo e il suo leader: Putin è il leader di questa Russia, di questi russi. Ai quali ha dato orgoglio e maggiore potere d’acquisto con politiche di welfare e incentivi mirati. La popolazione russa ha da tempo scelto, sicuramente sotto una narrazione a senso unico ma anche per fatto culturale, il suo Zar e lo ha legittimato a edificare l’idea di una Grande Russia a costo di una guerra. Il senso machiavellico della politica ci obbliga a non spingere le diplomazie oltre, a meno che al messaggio di condanna non si vogliano far seguire davvero le intenzioni militari. Che però a quel punto devono essere di pari intensità a quelle di Putin. A Biden ancora qualcuno rinfaccia il corto circuito tra l’essere «contro la Russia fino a che l’Ucraina avrà avuto la vittoria totale» e l’attuale stallo degli aiuti a Zelensky, così come le parole in difesa di Navalny: «Ci saranno conseguenze devastanti se dovesse morire in carcere».

Non riconoscere il risultato delle elezioni in Russia e quindi la leadership di Putin (che, ribadisco, è pienamente legittimato dal suo popolo) ci costringe poi a dover rispondere ad una domanda velenosa: e con chi si dovrebbe trattare per uscire dalla guerra non militarmente ma a seguito di un negoziato di mediazione? 

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