Agricoltori e cittadini, un'alleanza che unisce cibo, identità e scelte
Secondo i sondaggi la maggioranza degli italiani sta con gli agricoltori e ne sta comprendendo lo spirito della protesta. Si tratta di un gradimento «di pancia» e mai come questa volta l’espressione è carica di significato, nel senso che tra agricoltori e popolo si salda un’alleanza che nasce dal basso, dalla terra, che rinforza quell’identità che si proietta a tavola dove «mangiar bene» significa appagare l’appetito, nutrirsi correttamente e scegliere una precisa tradizione agroalimentare. Il grosso degli italiani vede nella rabbia dei trattori due obiettivi molto chiari: l’Unione europea e la grande distribuzione. Lo abbiamo scritto tante volte che le decisioni adottate negli anni da Bruxelles sono avvertite come una precisa volontà di penalizzare l’agricoltura italiana (ma anche i pescatori) fatta di varietà e tipicità; poi di esasperare con regole e regolette un lavoro che al contrario dovrebbe essere liberato il più possibile dal mostro della euroburocrazia (ricordiamo tutti le norme sulla misurazione degli ortaggi e la standardizzazione della frutta). Per poi arrivare alle scelte sulla «sostenibilità» come se gli agricoltori fossero i nemici dell’ambiente e non le sentinelle rurali della Natura, un concetto che recentemente ho avuto modo di rafforzare incontrando e dialogando con il presidente del Consorzio Parmigiano Reggiano, Nicola Bertinelli, il quale mi raccontava del "miracolo" della filiera del parmigiano: il lavoro nelle stalle, il benessere animale come priorità, la cura del territorio nelle coltivazioni, l’impatto sulla CO2 e tanto altro. Insomma un mondo che è green per il solo fatto stesso di esistere.
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Contro l’Europa, certamente, ma la protesta dei trattori è servita per portare alla luce anche la assoluta disparità tra il guadagno degli agricoltori e degli allevatori rispetto a chi sta cumulando profitti, anche approfittando delle crisi, ovvero la grande distribuzione e la grande industria. Una asimmetria carica di avidità e di miopia: a che serve strozzare quella componente della filiera che nell’immaginario collettivo è il motore del prodotto? A che serve strozzare coltivatori e allevatori non riconoscendo loro il giusto prezzo di quel che poi, una volta trasformato, arriva nei supermercati a prezzi rincarati? Chi guadagna allora? La gente, queste cose, le ha capite, per questo solidarizza con i trattori, è come se stesse fissando una priorità d’interessi comune: il consumatore non vuole fare a meno dell’agricoltore, non vuole sostituirlo con soluzioni "altre".
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Torniamo così alla battaglia centrale: non si può vendere sotto il costo di produzione. Questa è la battaglia che anche i grandi dovrebbero capire. Qualcuno, per fortuna, lo sta capendo. «Se paghiamo bene il piccolo ci guadagniamo tutti», mi racconta Cesare Pietrella, patron del Moderno Opificio del Sigaro Italiano. L’inversione di tendenza dei campi coltivati a tabacco è una storia da raccontare. «Noi acquistiamo circa il 50% del tabacco Kentucky in Italia. Quattro anni fa il prezzo medio del Kentucky era di 5 euro e molti coltivatori abbandonavano questa coltivazione per la mancanza di redditività poiché altri avevano interesse e convenienza a mettere in competizione l’agricoltore italiano con quello africano. Tre anni fa la mia scelta è stata di premiare i coltivatori italiani, portando così il prezzo medio a 8 euro al chilo; quest’anno addirittura a 9.5. L’ho potuto fare anche perché la multinazionale del settore, la Scandinavian Tobacco, nel rilevare la maggioranza di Mosi ha condiviso le nostre politiche a sostegno del settore, arrivando addirittura ad anticipare tutti i costi del coltivatore sollevandolo dai rischi. Risultato? Più coltivazioni di tabacco, perché ora conviene».
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