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Strage di Erba, Olindo e Rosa in carcere da innocenti? Antonino Monteleone: “Clamoroso errore giudiziario”

Antonino Monteleone*
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Quanti innocenti in carcere siamo disposti a tollerare pur di riuscire a tenere il passo dei crimini commessi, compresi i più efferati? Nel dubbio meglio condannare o assolvere, alimentando l’inquietudine dell’opinione pubblica che ha bisogno di un mostro dietro le sbarre? Me lo sono sempre domandato da quando, nel 2018, ho cominciato ad occuparmi delle indagini e del processo che si è celebrato per accertare la verità (giudiziaria) nel caso della «Strage di Erba». Oggi che la Corte d’Appello di Brescia, ordinando la citazione a giudizio di tutte le parti all’udienza dibattimentale del primo marzo prossimo venturo, retrocede al ruolo di «imputati» Rosa Bazzi e Olindo Romano, che per quell’orrendo massacro scontano l’ergastolo da 18 anni, torna di cruciale importanza e stringente attualità riaprire un dibattito sulla regola che i Giudici sono chiamati ad applicare nel pronunciare le sentenze. «Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio».

 

 

L’11 dicembre del 2006 a Erba le vite di tre donne e un bambino di due anni e mezzo sono state travolte dalla furia omicida, secondo una “definitiva” verità giudiziaria, di un netturbino e una donna delle pulizie che in venti minuti riescono anche a fuggire dalla scena del crimine, tornare nel loro appartamento per cambiarsi gli indumenti e andare a costruirsi un alibi in un fast food che dista una mezz’ora abbondante in macchina. I pilastri che reggono questa verità, tuttavia, malgrado una corazzata mediatica a difesa delle convinzioni dei magistrati del pubblico ministero, prima, e dei giudicanti, dopo, non reggono la prova della “falsificazione”, per dirla come Karl Popper. Le neuroscienze smentiscono il ricordo di quel super testimone, Mario Frigerio, che inizialmente non menziona mai il vicino di casa, ma un “extra-comunitario”, “olivastro”, “non di qua”. La prova scientifica, una macchia di sangue sul battitacco dell’auto di Olindo Romano, smontata dallo stesso Carabiniere che l’ha rilevata e che non esclude affatto che possa essere il frutto di una contaminazione involontaria. Le confessioni dei coniugi che somigliano a un delirio più che a una descrizione degli eventi, ma soprattutto raccolte nell’ambito di quello che il sostituto procuratore generale di Milano, Cuno Tarfusser, definisce lo «squilibrio» enorme di forze tra quattro pubblici ministeri più la polizia giudiziaria e due persone modeste e prive di mezzi cognitivi e culturali per resistere.

 

 

Nella sua richiesta di revisione l’ex Giudice della Corte Penale Internazionale si spinge oltre ipotizzando che alcune condotte nel corso delle indagini potrebbero costituire una vera e propria “frode processuale”. È proprio all’iniziativa di questo magistrato fuori da ogni logica correntizia, che si deve un’opportunità irripetibile per la magistratura italiana. Dimostrare coraggio ed equilibrio nel riconoscere che di dubbi ragionevoli ce ne sono troppi. Che in loro presenza una condanna all’ergastolo è intollerabile. Che a questo clamoroso errore giudiziario è possibile porre rimedio. Poi verrà il momento di aprire un sereno dibattito sul ruolo che, in una democrazia, riconosciamo ai media. Se intendono vigilare in modo critico su come ogni potere, compreso quello giudiziario, viene esercitato. O se di quel potere, compreso quello giudiziario, preferiscono continuare a farsi implacabili difensori.

*Inviato de Le Iene, autore dell’inchiesta che ha portato alla riapertura del processo.

 

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