Meloni, il plotone d'esecuzione costretto alla ritirata
Doveva essere un plotone d’esecuzione. Nelle ultime due settimane alcuni giornali hanno letto nei due rinvii della conferenza stampa di fine anno da parte del presidente del consiglio un tentativo di fuggire alle domande. Lei ha persino spiegato di avere problemi di salute. Alcuni (i soliti) sono arrivati a ipotizzare che non fosse vero, che Giorgia Meloni non stesse affatto male, anzi, aveva semplicemente paura di incontrare i giornalisti. Paura, esattamente. Così ieri mattina, quando è finalmente iniziata la conferenza stampa, mi aspettavo una gragnola di domande pertinenti e ficcanti. Del resto se hai 15 giorni di tempo per formulare dei quesiti e accusi l’interlocutore di voler fuggire al confronto hai la certezza di avere fra le mani non dico la pistola fumante (ogni riferimento è puramente casuale) ma almeno una qualche cartuccia. Ho ascoltato (e atteso) per tre ore e ventidue minuti filati. Non ho sentito nessuna domanda significativa. Anzi. Alcune erano oggettivamente ridicole. Tanto da far sorridere la stessa Meloni e permetterle di rispondere in scioltezza assoluta. Si possono e si devono fare le pulci ai politici ma servono argomenti adeguati o, almeno, minimamente fondati. Se, invece, si pretende di coinvolgerli in complottismi dai quali sono palesemente e totalmente estranei è meglio porsi da interlocutori invece che annunciarsi come plotone d’esecuzione. Poi costretto a correre in ritirata.
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Ancora una volta Meloni ha impartito una lezione di coerenza e chiarezza. Chi voleva metterla in difficoltà non c’è riuscito neppure per un istante. Ma appunto perché per metterla in difficoltà deve esserci un motivo concreto. Chiederle cosa ne pensa del vicepremier Matteo Salvini che ha incontrato i vertici di una società internazionale (Huawei) cliente (tra i tanti) dell’azienda del fratello della fidanzata Francesca Verdini equivale a non comprendere che non c’è nulla di strano nel fatto che un ministro incontri i vertici di un’azienda senza prima chiederle quante e con quali aziende ha rapporti. Così come porle quesiti sull’indagine della Procura di Roma sugli appalti Anas che hanno portato ai domiciliari Tommaso Verdini chiedendole del ruolo di Salvini: ma quale ruolo? Non è neppure citato nelle carte. Escluse le domande insulse su Salvini, sulle prospettive del voto alle Europee e quelle sicuramente più pertinenti ma oggettivamente scontate come sul possibile rimpasto o sulla tenuta della maggioranza, Meloni ha dato risposte chiare, altro che fuga. E così, un paio di domande, si sono rivelate persino un boomerang. Come quella relativa al timore di «deriva autoritaria» espressa dall’ex tutto e attuale giudice della Corte Costituzionale Giuliano Amato. Meloni ha risposto: «Sono rimasta basita» dalle sue parole. «Si pone il problema perché il Parlamento, entro la fine dell’anno, deve eleggere quattro giudici della Consulta. E siccome il Parlamento ha una maggioranza di centrodestra c’è un rischio di deriva autoritaria? Questa idea della democrazia è un po’ bizzarra». E ha ironizzato: «Potremmo cambiare la Costituzione, decidendo che i giudici sono nominati dal Pd sentiti alcuni intellettuali e Giuliano Amato». Il mondo «per cui la sinistra ha più diritti degli altri è fi-ni-to», ha scandito Meloni.
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Medesima chiarezza l’ha fatta rispondendo a chi l’accusa di aver melonizzato la Rai. Lei ha ricordato che questa è la prima volta in cui Viale Mazzini è realmente plurale perché FdI è stata l’unica sempre finora esclusa: «Stiamo riequilibrando». Netta invece sul caso del parlamentare Emanuele Pozzolo del quale ha chiesto a FdI la sospensione. «Sicuramente non sono disposta a fare questa vita, con la responsabilità che ho sulle spalle, se le persone che sono intorno a me non capiscono quella responsabilità. Su questo sono rigida». Trova assoluta fermezza anche quando viene accusata di conduzione familiare del partito, in particolare riferito alla sorella Arianna «militante da 30 anni». Di che parliamo? Appunto. Per fortuna ciascuno aveva solo una domanda a disposizione, come con Draghi. Ma senza applausi.
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