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Elezioni in Turchia, sarà vero cambiamento? Kemal sfida Erdogan

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Gaetano Massara
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Oggi i turchi vanno alle urne per eleggere Presidente e Parlamento della Repubblica nata sulle ceneri dell’Impero ottomano uscito sconfitto dalla Prima guerra mondiale. Mai come oggi la Turchia è polarizzata. Da una parte il presidente uscente, Recep Tayyip Erdogan (nella foto), leader del Partito della giustizia e dello sviluppo, conservatore e islamista, al potere dal 2002, ideatore di un regime autoritario accentuatosi con la riforma iper-presidenziale del 2017. Dall’altra le eterogenee opposizioni coalizzatesi attorno a Kemal Kiricdaroglu, leader del Partito repubblicano del popolo, kemalista della minoranza aluita, che si propongono di restaurare il sistema parlamentare e ridurre i poteri del Presidente.

Esse intendono riavviare i negoziati di adesione all’Ue, applicare le decisioni della Corte europea sui diritti dell’uomo e adottare una condotta leale verso gli alleati Nato. Sullo sfondo l’inflazione al 55%, la svalutazione del 130% della lira turca e il fallimento dell’erdoganomics che hanno assottigliato la classe media, e le devastazioni del terremoto, che ha fatto 50.000 vittime e 1,5 milioni di senzatetto. L’ambizione di Erdogan di elevare la Turchia al rango di potenza globale affonda le radici nella memoria delle glorie ottomane e nella consapevolezza che l’Anatolia è un indifendibile ponte tra Europa, Asia e Africa la cui sua sicurezza inizia a Sarajevo, Mykolajiv, Baghdad, Karachi, Tripoli e Mogadiscio. Tale profondità strategica si articola lungo quattro direttrici: quella caucasico-centroasiatica mirante a rafforzare il legame tra le nazioni turcofone; quella medio-orientale, che attraverso il panislamismo aspira ad ergere la Turchia a guida delle nazioni musulmane; quella balcanica, retroterra strategico per aver voce negli affari europei; e quella africana, trampolino di lancio verso gli oceani.

Nella prima decade del secolo il neo-ottomanesimo di Erdogan aveva mantenuto connotazioni di competizione pacifica con i partner internazionali. Ma nel 2013 si è operata una svolta. La convinzione di Erdogan che l’Occidente abbia dato il proprio sostegno al colpo di Stato contro i Fratelli musulmani in Egitto, alle proteste contro di lui del parco Gezi, ai curdi di Siria e Iraq e al tentato colpo di Stato turco lo ha indotto a declinare il neo-ottomanesimo in forma esplicitamente imperiale e aggressiva. La dottrina della «Patria blu», che dà fondamento alle rivendicazioni su quello che Ankara considera il proprio spazio vitale liquido e proietta le ambizioni turche fino allo stretto di Gibilterra e all’Oceano Indiano ha trovato applicazione nell’accordo del 2019 con il governo di Tripoli. In cambio della fissazione di una linea di confine tra la Zona Economica Esclusiva turca e quella della Cirenaica che consente alle acque turche di incunearsi tra quelle greco-cipriote e guadagnare l’accesso al Mediterraneo, la Turchia è intervenuta militarmente per aiutare il governo tripolino contro il colonnello Kalifa Haftar.

Ankara ha così potuto iniziare le esplorazioni di idrocarburi nella sua pretesa ZEE, scatenando le proteste di Cipro e Grecia, e rafforzare la propria penetrazione in Africa. Nel 2020 ha firmato un accordo di cooperazione militare con l’Albania e fornito un aiuto determinante all’Azerbaigian nella guerra contro l’Armenia per il Nagorno-Karabakh. L’impantanamento russo in Ucraina ha rafforzato il potere negoziale della Turchia. Il veto all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, l’intesa con la Russia, la collaborazione con Mosca e Teheran nella questione siriana e la cooperazione con la Cina ne sono esempi. La presenza turca in Libia e Albania rappresenta motivo di preoccupazione per l’Italia. È ragionevole attendersi che indipendentemente da chi uscirà vincitore delle elezioni, la revisione del Trattato di Losanna del 1923 rimarrà un tratto strutturale della politica estera turca. C’è da augurarsi che con l’eventuale cambio di regime esso rientrerà nei canali del dialogo e della cooperazione internazionale. 

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