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La via crucis di chi subisce un borseggio, la lezione di Paragone al Pd

Gianluigi Paragone
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Mi fa piacere che a sinistra si dibatta molto sulla reputazione di borseggiatori e zingari. I primi offesi dalla pubblicazione di alcuni video, i secondi dall’annuncio di screanzati dipendenti della metropolitana di Roma contro i quali un po’ di gogna pubblica non guasterebbe. E chissà mai se la consigliera comunale del Pd così attenta alla sensibilità dei borseggiatori non voglia denunciare pure quel vigliacco di Staffelli che si fa forte dei suoi tapiri e se la prende coi poveri tapini cui la vita non ha dato altro sbocco se non quello di vivere attraverso espedienti. Che gliene frega a Striscia la Notizia se le forze dell’ordine li prendono e dopo poche ore qualcuno li rimette fuori a riprendere il «lavoro» di borseggiatore? Staffelli s’impicciasse degli affari suoi: fanno sempre i gradassi coi più deboli.

Detto tutto questo, mi auguro che, senza urtare la sensibilità dei democratici, si possa anche spendere due parole a favore di chi subisce il borseggio, visto che non ne parla nessuno. Se abusassi a queste mie parole seguiranno articoli e video consolatori da parte della signora Concita De Gregorio dalla tribuna de La7 o dalle colonne di Repubblica.

Dunque, proviamo un po’ a capire le ragioni di chi subisce il furto da parte di questi poverelli cui la vulgata comune scarica il proprio odio razziale. Di solito quando ti fregano la borsa o il portafoglio, per prima cosa ti girano le scatole perché subisci una violazione: qualcuno ti ha infilato le mani nelle tasche e ti ha portato via qualcosa di tuo. Dura pochi secondi, giusto il tempo di realizzare la via crucis cui sei condannato dalla scoperta in poi. Non sono tanto i contanti che ti fregano (cioè il vero bottino che interessa ai borseggiatori): ormai con la riduzione del contante è difficile avere il portafogli carico. Sono per lo più le persone anziane a infilare nel borsellino tanti soldi perché si sentono più sicure: non è un caso che gli uffici postali siano i luoghi più battuti da chi cerca uno scippo veloce. Quindi passi per i soldi che ti fregano (tanto a fregarceli pare che ci sia una gara...); è tutto il resto che ti fa sbiancare. Nel portafogli conserviamo carte di credito e bancomat: quando ci siamo accorti del furto? Chissà se avranno comprato qualcosa usando la mia carta? Mentre in testa ti frullano queste domande, pensi a dove hai messo i numeri segreti delle carte e soprattutto il numero da comporre per bloccare la carta stessa. Tutto è sempre facile fintanto che non ne hai bisogno; in quel preciso istante, invece, ti accorgi di com’era bello parlare con un operatore in carne e ossa e non con un risponditore automatico. «Pronto? Sì, mi hanno fregato il portafogli».

La telefonata. È prassi che dopo aver chiamato il parente più prossimo per avvisare della cosa, passino pochi minuti dalla valanga di telefonate di gente che deve darti consigli utili su che fare. «Certo, ora vado in questura a denunciare il furto». Di solito la si fa contro ignoti. Qualche volta capita di individuare il colpevole ma è raro: accade perché è stato maldestro, si è fatto beccare e sei nella condizione di poterlo fermare in attesa che arrivino polizia o carabinieri. Lo denunci sapendo comunque che il giorno dopo te lo ritrovi esattamente dove lo avevi lasciato. Ma andiamo oltre. Nel portafogli hai pure gli altri documenti. E qui ti tocca ingaggiare una battaglia col tuo fegato: sei pronto ad affrontare la più vergognosa pubblica amministrazione e la più cafona burocrazia? Anche se no, ti tocca ugualmente. E non puoi fare il matto: è già capitato a Michael Douglas in «Un giorno di ordinaria follia» e abbiamo visto che fine ha fatto. Rifare la carta d’identità significa - specie nelle grandi città - fare i conti con gli sportelli, le carte da bollo, le fotocopie, le manie digitali del ministro di turno, gli spid, gli spod, gli slot e le tante domande tont del funzionario di turno. Ho da poco raccolto la testimonianza di una persona che ha dovuto fare dei documenti a Roma: un’odissea.

Usare il telefono per avere informazioni preliminari pare che sia una scortesia colossale o una provocazione: pare che tu ti diverta, dopo minuti in attesa, a domandare che fare? In qualche modo vieni a conoscenza che devi- ma tu guarda... -fare una fila per ritirare il numerino, un’ora prima che aprano gli uffici. All’apertura ti accorgi che c’è sempre qualcuno che ha una prenotazione particolare in virtù della quale lui può saltare la coda. «Scusi, dove devo andare?». È il minimo in quella babele di gente che sembra collocata appositamente per complicarti la vita. «Di là, ma chieda perché non so esattamente. Stia attento perché la chiameranno a voce». Nell’attesa raccogli le voci degli altri: a uno hanno smarrito la carta d’identità, ad un altro hanno risposto che passeranno dai quattro a sei mesi per avere quella elettronica. Poi pensi a cosa dovrai rivivere per riavere la patente: un altro incubo! «Ma che jè frega dottò, con il foglio provvisorio lei può camminare dove vuole».

Già, siamo sempre nella condizione del temporaneo, del provvisorio, del precario. Mi fermo qui o vi devo pure dire degli altri documenti? Tessera sanitaria e codice fiscale in testa? Il badge del lavoro, la tessera dell’ordine professionale e il foglietto su cui conserviamo pin e puk del telefono e magari pure le password di ciò che è importante? Ecco, cari signori della sinistra, scusate se dopo che ci hanno fregato il portafoglio l’ultima cosa che ci interessa è il politicamente corretto: se per rifare i documenti ci tocca vivere questa lunga via crucis, la colpa è pure vostra e dei sindacati. Post Scriptum. Ovviamente tutto questo ti capita se non vuoi appoggiarti a una qualche agenzia che sbriga le carte al posto tuo in pochissimi giorni. Ma questo è un altro furto, che non ci vuole nemmeno tanto a debellare. O bisogna aspettare Striscia la Notizia o le Iene o una delle trasmissioni che mi tolsero?

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