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Giorgia Meloni regina del poker: i quattro assi sulla scena internazionale

Luigi Bisignani
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Caro direttore, dopo gli scacchi, ora Giorgia è regina del poker. Il libico Haftar, il cinese Xi, l’americano Biden e l’indiano Modi: ecco i prossimi quattro assi calati da Meloni nella sua strategia internazionale con una mossa «win-win» che la porta ad allontanare i problemi interni, dalle nomine ai balneari, punzecchiata da un Presidente della Repubblica che, tra Scala e Sanremo, si presenta sempre più con un profilo nazional popolare.

«Partita da una sezione missina della Garbatella guarda ora dove sono», avrà pensato, tra una sigaretta slim e l’altra, sul vagone del treno che la portava a Kiev ad incontrare il presidente ucraino Zelensky.

Oltre venti ore di rotaia, tra andata e ritorno, che l’ha forzatamente "isolata" dal resto del mondo come forse non succedeva da anni, facendole vivere emozioni forti. Accanto a lei un vero mastino come Giovanna Ianniello che le guarda le spalle dal 1996, Patrizia Scurti, mano destra e sinistra prima di Fini e ora appunto del premier, Giovanbattista Fazzolari, in un outfit "alla Zelensky" con berretto e maglione di lana, e due consiglieri diplomatici: Francesco Talò e Pier Francesco Zazo che strenuamente, fino all’ultimo, hanno tentato di strappare, se non un faccia a faccia, almeno una photo-opportunity con Biden.

Ma "Sleepy Joe", sapendo che per il suo rientro da Kiev aveva bloccato per più ore la lady italiana, ha alla fine optato per una telefonata, che comunque allunga la vita come direbbe Massimo Lopez.

In Italia tutta la diplomazia è intenta a preparare il prossimo incontro con il generale Haftar, comandante delle forze armate libiche, dopo la recente missione a Tripoli. Il dilemma è se incontrare anche il primo ministro del governo riconosciuto dal Parlamento di Bengasi, Fathi Bashagha, con il suo ministro degli Esteri e grande amico dell’Italia, Hafed Gaddur, da sempre alleati del generalissimo libico.

La Farnesina per ora nicchia mentre i Servizi sarebbero favorevoli perché solo interloquendo con tutte le parti in causa la Meloni potrebbe avere in terra libica un ruolo autorevole e riconosciuto da tutte le fazioni. Ed in Libia è all’ordine del giorno "l’affaire Misurata", l’ospedale costruito con grande dispendio di fondi, poi lasciato al suo destino con asserragliati dentro pochi militari e alla fine chiuso in fretta e furia dalla coppia Draghi-Guerini.

Una struttura che ha creato pesanti tensioni con le autorità locali perché, ad un certo punto, non se ne capiva più la ratio. Ma adesso il ministro della Difesa Guido Crosetto pare abbia intenzione di riprendere in mano la vicenda. L’auspicio è che la nostra presenza militare in Libia, ormai ridotta a poche decine di uomini, possa servire come struttura di addestramento per un futuro esercito libico che vada a eliminare definitivamente le milizie e i miliziani, al soldo del miglior offerente.

Ma Giorgia non vuole giocare mosse al buio per non creare ulteriori polemiche con Forza Italia anche perché, analogamente alla Russia, la Libia, per come sono andate le cose, è un argomento caro a Berlusconi che, in quella occasione, aveva visto giusto bloccato dal ruolo nefasto che ebbe l’allora presidente Giorgio Napolitano per andare incontro alle pruderie di Sarkozy.

Meloni sta toccando con mano che Berlusconi è il suo principale "ostacolo" e che neppure il suo ministro degli Esteri forzista, Antonio Tajani, riesce ad arginarlo. Forse proprio per questo, nelle lunghe ore sui binari, ha rimuginato che non può farsi logorare in una lunga guerra di nervi e continuare con il refrain «boni, state boni» imparato da Maurizio Costanzo, appesantita, tra l’altro, da una squadra di ministri (Urso, Pichetto, Schillaci) che non si sono certo ancora rivelati quei «migliori» che lei pensava di aver arruolato. Il Premier è anche ben consapevole che deve mettere mano alla macchina di Palazzo Chigi, dove due tra le pedine fondamentali, il capo di gabinetto Gaetano Caputi e quello del dipartimento affari giuridici Francesca Quadri, non riescono ancora ad impadronirsi appieno del ruolo.

In salita vertiginosa di gradimento, non solo nei sondaggi, ma nel Paese e all’estero, per Meloni l’operazione più facile sarebbe fare un bel rimpasto. Ma avrebbe troppo un sapore da Prima Repubblica e perciò chissà se nei pensieri, che non esternerebbe mai, potrebbe farsi strada una mossa azzardata da "all-in": forte del fatto che senza Fratelli d’Italia non esiste alcuna maggioranza di governo, perché non acuire i contrasti con gli alleati per arrivare ad elezioni anticipate, spiegando agli elettori il contesto della necessità, magari accompagnata da una grande campagna identitaria come quella del presidenzialismo da abbinare alle europee del 2024? Elezioni anticipate come progetto dunque, ma anche come minaccia agli alleati che, proprio in queste settimane a ridosso della stagione infuocata delle nomine, vogliono far sentire prepotentemente la loro voce, ora che i manager ancora in campo scelti da Cinque Stelle e Pd sembrano essere diventati improvvisamente dei vecchi e consumati camerati.

Siamo pur sempre il paese del Gattopardo. Giorgia di strada ne ha fatta tanta e, con tanti che puntano le loro fiches su di lei, compreso il gran capo del PPE Weber, potrebbe giocare l’asso pigliatutto elettorale che le consentirebbe di governare senza sentirsi continuamente tirare perla giacchetta. Sembra che proprio questo vogliono gli italiani da lei. Una mossa che, a poker, si chiama «Vedo».

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