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L'astensionismo non è anticamera del collasso della democrazia

Riccardo Mazzoni
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Se gli elettori disertano le urne, c’è un problema di legittimità del voto? Il quesito non è certo nuovo, ma dopo l’astensione record delle ultime regionali è stato riproposto con forza soprattutto da alcuni opinionisti vicini alla sinistra sconfitta che sono ricorsi a un opinabile sillogismo: un leader che ha vinto in queste condizioni dovrebbe dichiarare il successo come infondato, considerando l’enorme scollamento registrato tra domanda e offerta politica. Nessuno è arrivato a chiedere l’annullamento del voto, ma il senso del ragionamento era sostanzialmente quello. Ormai da anni l’astensionismo viene impropriamente definito «il primo partito del Paese», e dal punto di vista meramente numerico è vero, ma sarebbe sbagliato trarre conclusioni univoche da un fenomeno che ha radici variegate e non tutte riconducibili a una forma estrema di protesta nei confronti della politica, come se si trattasse di un blocco sociale compatto mosso dagli stessi convincimenti. Il libro bianco sull’astensionismo redatto un anno fa dalla commissione Bassanini, ad esempio, ha individuato molteplici cause della rinuncia al voto, soffermandosi in particolare sul cosiddetto astensionismo involontario, rappresentato dalla platea di potenziali elettori che hanno difficoltà di movimento – sono più di quattro milioni sopra i 65 anni – e da chi per ragioni di lavoro o di studio nel giorno del voto si trova lontano dal Comune di residenza, e in questo caso si tratta di quasi cinque milioni di persone.

 

 

Oltre all’astensionismo involontario, il Libro bianco ha focalizzato anche l’astensionismo «apparente», legato in larga misura all’incidenza degli elettori iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero sul calcolo delle percentuali di affluenza al voto nelle elezioni regionali e amministrative. Si tratta di un’analisi scientifica che induce dunque a ridimensionare il fenomeno, anche se è innegabile l’esistenza di un malessere crescente nei confronti di un sistema dei partiti in gran parte autoreferenziale, che ha progressivamente smarrito la sua funzione di rappresentanza dei corpi sociali. Protesta e disinteresse nei confronti della politica hanno trovato linfa nella lunga crisi economica, nell’impoverimento dei ceti medi e nelle sacche sempre più vaste di marginalità sociale di cittadini sfiduciati che non si sentono più rappresentati da nessuno e tendono quindi ad autoescludersi per mancanza di riferimenti credibili, oltre che per la convinzione che il proprio voto non conti nulla. È un trend, questo, che accomuna tutte le democrazie occidentali, e qui allora si pone il vero quesito: è giusto far discendere dalla partecipazione al voto la solidità di una democrazia?

 

 

Le affluenze «bulgare» quando si vota nei Paesi autocratici sono la migliore smentita a questa teoria, e d’altra parte nelle democrazie anglosassoni, le più antiche e inattaccabili, l’astensionismo può dimostrare l’esistenza di una sorta tranquilla fiducia nella tenuta del sistema. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’entrata in scena di un personaggio divisivo come Trump ha fatto salire in modo esponenziale la febbre elettorale in un Paese in cui l’astensionismo è sempre stato elevato. Anche in Italia, lo scarto di partecipazione registrato tra elezioni locali ritenute scontate e l’affluenza alle politiche successive - in cui erano in gioco scelte ritenute decisive - si può attribuire a questa consapevolezza, e non al ripudio generalizzato di concorrere alle scelte politiche. D’altra parte, nei referendum dove è richiesto un quorum per rendere valido il voto, l’astensione è lo strumento che il cittadino ha a disposizione per prendere le distanze da quesiti ritenuti irrilevanti. Per cui, fermo restando che la politica debba impegnarsi per rimuovere le cause politiche e strutturali dell’astensionismo, questo non può essere considerato l’anticamera del collasso della democrazia: «È una sorta di diritto al digiuno per un vegetariano in un ristorante per carnivori, è la manifestazione di un dissenso non violento, civile verso un sistema e i supposti rappresentanti sfiduciati e ritenuti non in grado di governare. Il non voto è parte integrante dell’esercizio del diritto di voto», ha scritto con la sua penna tagliente Maurizio Bianconi. Una riflessione controcorrente ma tutt’altro che banale.

 

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