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Pd, l'eterno Franceschini: un gattopardo con la faccia da bronzo di Riace

Riccardo Mazzoni
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Il Pd ha macinato in quindici anni un numero impressionante di segretari, tanto che è difficile perfino ricordarli tutti: Veltroni, Franceschini, Bersani, Renzi, Martina, Zingaretti, Letta, a cui vanno aggiunte le reggenze di Epifani e Orfini. Ma ai continui ricambi al vertice non ha mai corrisposto un vero rinnovamento della classe dirigente, rimasta abbarbicata a spartirsi il potere. Due ex leader Renzi e Bersani- hanno scelto per motivazioni opposte di abbandonare il partito, Veltroni è uscito dalla politica, Letta sta per gettare la spugna, e dunque se si cerca un personaggio che incarni la continuità di questo travagliato percorso, il pendolino non può che fermarsi su un unico, inossidabile nome: quello di Dario Franceschini, per giovanile militanza democristiana esperto navigatore tra i marosi correntizi.

 

Il Pd nacque col battesimo delle primarie e con l'elezione plebiscitaria di Veltroni, sulla spinta di un vento che avrebbe dovuto spazzare via le correnti, ma dopo le sconfitte alle Politiche del 2008 e alle regionali in Abruzzo e in Sardegna, il leader fu costretto a dimettersi proprio sotto la pressione insostenibile dei capicorrente. E chi riuscì a farsi eleggere al suo posto dall'Assemblea nazionale? L'ineffabile Franceschini, grigio ma sufficientemente trasversale, che interpretò in modo talmente solenne il suo ruolo di traghettatore da giurare addirittura sulla Costituzione nella sua Ferrara, come i presidenti americani, e al congresso successivo si candidò contro Bersani uscendone però sonoramente sconfitto. Con un colpo a effetto, alla vigilia delle primarie del 2009 aveva rispolverato il metodo del ticket, scegliendosi come numero due il deputato Touadi, arrivato nel gruppo del Pd da pochi mesi (era stato eletto nell'Italia dei Valori), contando così di rendere visibile il suo impegno «a rinnovare la classe dirigente», un mantra che ora ripropone appoggiando Elly Schlein, neoiscritta al Pd e da lui consacrata come l'emblema delle generazioni nuove, le sole «capaci di capire e interpretare veramente questa stagione». Con lui, è il sottinteso, a manovrare dietro le quinte.

 

Eletto capogruppo alla Camera, si distinse per un'opposizione durissima al governo Berlusconi continuando però ad alimentare senza sosta la deriva correntizia nel partito. A maggio 2010 l'agguerrita minoranza interna del tandem Veltroni-Franceschini si riunì a Cortona dando vita a una sorta di revival della breve stagione del Lingotto, con la dichiarata volontà di cambiare il profilo del partito. Indicazione un po' vaga, ma che di fatto bocciava su tutta la linea i primi mesi della segreteria Bersani accusata, in sostanza, di immobilismo. Franceschini nel suo intervento ripropose tutti i temi che avevano caratterizzato la discesa in campo di Veltroni, suggerendo un ritorno alle origini per scongiurare il fallimento del partito.

La «Velina rossa», notoriamente vicina a D'Alema, li definì causticamente «i poverelli di Cortona», ossia una compagnia di generali senza truppe, a dimostrazione del clima di veleni che era - ed è rimasto - la cifra dei rapporti dentro il Nazareno. Alla direzione del gennaio 2011, che dopo la bocciatura della mozione di sfiducia al governo avrebbe dovuto costituire il momento in cui il Pd «tornava a parlare al Paese» affrontando tutte le questioni politiche in sospeso- dalle alleanze alle primarie- Franceschini coniò un epigramma che descriveva plasticamente lo stato confusionale del partito: «Tutti i pettini vengono al nodo» disse. La direzione finì come sempre, senza risolvere politicamente nulla, essendo tutta incentrata sulla resa dei conti interna: l'unica novità fu che nel frattempo Franceschini era trasmigrato nella maggioranza insieme a Fassino. L'anno successivo, subodorando il precipitare degli eventi che avrebbe portato alle dimissioni di Berlusconi, Dario il solitario - come lo definivano i compagni in Transatlantico - tornò alla ribalta delle cronache intestandosi la proposta del governo di unità nazionale «che superi Berlusconi e vada oltre Berlusconi».

 

Intervistato da Lucia Annunziata, lasciò capire che il suo partito poteva essere disponibile a entrare anche in un governo d'emergenza col Pdl «purché il centrodestra si sbarazzi di Berlusconi». Ma nel 2013, dopo le elezioni che segnarono la «non vittoria» di Bersani, Franceschini si trasformò in colomba ed entrò senza indugi, come ministro ai Rapporti col Parlamento, nel governo di coalizione guidato da Letta in cui il Pdl di Berlusconi era pienamente rappresentato. Inutile dire che, annusando di nuovo sapientemente l'aria, il principe delle correnti salì poi senza batter ciglio sul carro del rottamatore Renzi, assicurandosi una lunga navigazione al ministero dei Beni culturali, interrotta solo nell'anno del governo gialloverde. Ora, rieletto per la sesta volta in Parlamento, si è di nuovo schierato sul fronte del «rinnovamento», appoggiando la pasionaria Schlein, scesa in campo per distruggere le correnti del Pd, ossia la storia politica di Franceschini, un gattopardo da tanto di cappello e una faccia da bronzo di Riace. 

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