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L'opposizione ha la memoria corta: sui tempi della manovra i record negativi stanno a sinistra

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Riccardo Mazzoni
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Le opposizioni denunciano «il caos sulla manovra» e Pd, Verdi-Sinistra e centristi domenica sera hanno addirittura abbandonato i lavori della Commissione Bilancio prima che arrivasse il ministro Giorgetti. L'ineffabile Serracchiani, capogruppo Dem, è arrivata a sentenziare che «la correttezza dei rapporti tra governo e Parlamento è venuta meno», mentre Calenda si è lanciato in un pronostico malaugurante sul rischio concreto di dover ricorrere all'esercizio provvisorio, che certificherebbe «l'incapacità del governo di gestire la legge di bilancio». Ognuno fa legittimamente il suo mestiere, ma che i tempi della manovra quest'anno sarebbero stati molto stretti lo sapevamo tutti, fin da quando fu fissata la data del 25 settembre per le elezioni anticipate, a causa del lungo iter previsto per l'insediamento delle Camere e per la formazione del nuovo governo. Nonostante questi impedimenti oggettivi, dall'opposizione non c'erano da attendersi né comprensione né sconti, anche perché le Finanziarie sono da sempre - fisiologicamente - il principale oggetto di scontro politico. Ma c'è un ma grosso come un macigno: che oggi a protestare per i ritardi dell'esecutivo siano gli stessi partiti che fecero parte del secondo governo Conte fa abbastanza sorridere, visto che nella sessione di bilancio di due anni fa furono battuti tutti i record negativi per caos, ritardi e approssimazione, e se l'esercizio provvisorio venne scongiurato fu merito esclusivo del senso di responsabilità del centrodestra.

 

 

Per la prima volta nella storia della Repubblica, infatti, la manovra economica fu presentata con un mese di ritardo, e un ramo del Parlamento si trovò a licenziarla - in prima lettura! - la sera del 27 dicembre, con il Senato costretto poi ad approvarla a rotta di collo. Fu la degna conclusione di un annus horribilis gestito da una maggioranza di estrema sinistra senza bussola e senza una minima visione del Paese, dai Dpcm illiberali di Conte fino ai banchi a rotelle, ai bonus a pioggia e alle surreali Primule per distribuire i vaccini. L'improvvisazione al potere, insomma, per cui tutta l'azione del governo rossogiallo è rimasta alla storia come un continuo e affannoso esercizio provvisorio, con la terribile eredità del record mondiale di crollo del Pil e di morti da Covid per numero di abitanti. Quella legge di bilancio fu dunque la deludente sommatoria di misure tampone, di bonus e di frattaglie normative frutto di un assalto alla diligenza del tutto incompatibile con la gravità della situazione, un autentico repertorio di corporativismo condensato - si fa per dire - in 450 pagine giudicate dall'Ufficio parlamentare di bilancio come "un coacervo di misure senza un disegno, un collage di interventi pubblici di favore".

 

 

Facevano spicco il bonus bidet, i finanziamenti a cori, bande di paese e musica jazz, oltre che a corsi di formazione turistica esperenziale, e i fondi ai veicoli di interesse collezionistico. La maggioranza era già sul punto di implodere, ma c'era un filo rosso che teneva unite le quattro sinistre al governo: l'ostilità ideologica al mondo produttivo e alla proprietà privata, tradotta nella guerra alle partite Iva e ai proprietari di immobili. La ciliegina su quella torta avvelenata fu la rissa finale sul Recovery Plan, con il premier costretto a fare marcia indietro sull'esercito di burocrati che si apprestava a nominare commissariando insieme governo e Parlamento. Dunque, prima di sparare oggi sul pianista, le sinistre sparse dovrebbero ricordare quei giorni frenetici di fine 2020, quando stavano insieme al governo e presentarono la legge di bilancio fuori tempo massimo, molto più tardi di quella gialloverde dell'anno prima contro la quale il Pd aveva fatto ricorso alla Consulta «per la compressione delle prerogative dei parlamentari».

 

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