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Criticare il corpo di Giorgia Meloni è figlio di una cultura medievale

Domenico Giordano
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Le braccia da boscaiola, come le ha velenosamente definite Dagospia, esibite da Giorgia Meloni l'altra sera dal palco reale della Scala grazie all'abito di velluto blu scelto per l'occasione della prima stagionale, sono innanzi tutto delle braccia politiche, nel senso che come accade da sempre il corpo, del sovrano e del leader in genere, ha una sua intrinseca capacità comunicativa. Però, questa volta non serve andare a rileggere le numerose ricerche socio-antropologiche che negli ultimi trent'anni hanno indagato il rapporto tra il corpo del leader e la mediatizzazione crescente delle nostre società, perché quest'ultima ha come portato la definitiva desacralizzazione politica della fisicità del leader. Il «corpo del Re» non conta più come un tempo, anzi non conta affatto per i cittadini (così come per i sudditi). È solo un corpo strettamente personale, non è più un oggetto di culto, di devozione e come tale di ostentazione. È, all'opposto, un corpo liberato dalla necessità di essere perfetto nelle forme, dall'essere esteticamente attraente contro l'incedere delle stagioni, e, soprattutto, è un corpo emancipatosi dalla virtù dell'efficienza ogni qualvolta è minato da una malattia invalidante. Insomma, per dirla brevemente utilizzando le parole scritte da Mauro Calise i nostri sono oramai «leader senza un corpo politico, senz'altro corpo che il proprio» e per questo motivo il corpo non è più il totem sacro da preservare o venerare in vita o nella morte.

 

 

Ecco perché tutti coloro che in questi giorni hanno polemizzato sulla mise di Giorgia Meloni perché metteva in risalto invece di celarle al pubblico le imperfezioni del suo fisico, sono rimasti imprigionati, forse a loro insaputa, in una visione datata, un'idea decisamente da ancien régime. Anzi, più il corpo del leader e con esso le braccia sono da boscaiola, piuttosto che da massaia, da operaio o meglio da infermiera, più il leader riduce le distanze dagli elettori nel mostrarsi senza veli o artifizi; più i pubblici ottengono il pass per frequentare il «retroscena» e non solo la «scena», calcata dal leader più lo sentono vicino, autentico e meritevole di fiducia. Ecco perché il corpo del leader, donna o uomo che sia non importa, è oggi sempre più il corpo di un «ordinary Joe», dell'uomo e della donna della porta accanto, di quello che gli americani chiamano «everyday man», cioè di un leader che allo specchio riflette l'immagine di ciascuno e di tutti noi, anche e soprattutto nelle scelte di abbigliamento. Quanto meno della maggioranza. Proprio per questo diventa rassicurante, familiare e reale perché di fatto comune e tangibile. Il leader, a dispetto del passato, non teme più che il proprio corpo possa essere visto così come è, possa essere giudicato per le sue fattezze e, di conseguenza, da quel giudizio riceverne una lesione della propria immagine di superman o di wonder woman.

 

 

Così mentre Franklin Delano Roosevelt cercò il più possibile di nascondere agli americani la sua malattia che gli impediva di muoversi autonomamente, Papa Francesco non fa mistero delle sue difficoltà motorie che lo costringono a spostarsi spesso su una sedia a rotelle. Allo stesso modo, si pensi alla distanza che passa tra l'abbigliamento di Aldo Moro, con il leader democristiano che in spiaggia a Terracina si faceva fotografare comunque in giacca e cravatta, e quello di Matteo Salvini che in bermuda si improvvisa animatore e disc jockey al Papeete di Milano Marittima. Nelle società mediatizzate il corpo del leader comunica proprio perché ha smarrito del tutto la sua sacralità e può permettersi anche di indossare una bandana, come fece nel 2004 Silvio Berlusconi Presidente del Consiglio, o una semplice canotta di cotone bianco, must estivo dell'allora leader leghista Umberto Bossi.

 

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