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Berlusconi la smetta, non si comporti con Meloni come Fini fece con lui

Riccardo Mazzoni
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Mettiamoci per un momento nei panni di un elettore che ha votato centrodestra, e attende fiducioso che nasca finalmente un governo espressione della volontà popolare dopo un decennio di alchimie di Palazzo; o in quelli di un italiano medio costretto a scegliere tra comprare i libri scolastici dei figli e pagare le bollette di luce e gas a fine mese a causa dei prezzi impazziti; o, ancora, nei panni di un imprenditore che dovrà bloccare la produzione per il semplice motivo che in tre anni la bolletta energetica per l'industria italiana è passata da otto a 110 miliardi di euro.

È il Paese reale che sente il terreno franare sotto i piedi e aspetta almeno che si apra un paracadute per scongiurare il peggio, nella forma di un governo autorevole e coeso, che approvi presto e bene le misure più urgenti e sappia farsi valere in Europa anche senza l'ombrello di Draghi. Del resto lo slogan «siamo pronti» proprio a questo alludeva: a dimostrare che grazie al bagno di democrazia del voto anticipato si era definitivamente chiusa l'epoca dei governi del Presidente e la parentesi dei dilettanti grillini al potere, con un governo politico in grado di guidare il Paese per l'intera legislatura, attuare il Pnrr e varare le riforme rimaste troppo a lungo nel cassetto.

Ebbene, dal 25 settembre ad oggi il centrodestra, per usare un eufemismo, non ha dato di sé un'immagine propriamente in linea con le attese, e anche se il governo nascerà nei tempi previsti, l'impressione generale è che l'agenda della maggioranza si sia incentrata molto più sui dividendi di potere che sulle urgenze del Paese. Giudizio ingeneroso, perché sul tavolo della premier in pectore tutti i dossier cruciali sono stati studiati e approfonditi, ma il messaggio arrivato agli italiani è stato quello di una coalizione lacerata ab origine da fraintendimenti politici e personali, dalla tormentata accettazione dei nuovi equilibri interni e da un ricambio generazionale al vertice dettato non tanto dall'età dei leader quanto dall'esito elettorale. Le recriminazioni di Forza Italia sono comprensibili: la distribuzione dei collegi - e di conseguenza il numero dei seggi - l'ha infatti pesantemente penalizzata rispetto alla Lega a fronte di un risultato equivalente, ma il fallo di reazione sulla presidenza del Senato, nell'abbecedario della politica, è stato da cartellino rosso, così come la finta pace siglata sui ministri non ha certo spianato la strada a un'ordinata nascita del nuovo governo. La storia di Berlusconi e la politica euroatlantica dei suoi governi fanno aggio sui dubbi seminati dalle ultime esternazioni su Putin, ma siamo in mezzo a una guerra vera, e alimentare la guerriglia politica nella maggioranza per mettere il cappello su qualche ministero chiave, pur con tutte le buone ragioni, diverrebbe un'azione preventiva di logoramento col rischio di pregiudicare la stessa navigazione del governo nei primi cento giorni.

Non c'è nulla di peggio, per la credibilità di una coalizione, che la percezione nell'opinione pubblica di una deriva irrazionale sull'ottovolante dei chiarimenti, dei contrordini e delle verifiche quotidiane. Sembra incombere, insomma, la maledizione che portò l'ultimo governo di centrodestra all'implosione dopo un'estenuante guerra di logoramento: le diversità sono considerate una ricchezza, ma se diventano sistematiche sono una patologia che diventa incurabile. Berlusconi è il primo a saperlo, perché da premier ha dovuto spesso fronteggiare le intemperanze degli alleati, e ora dovrebbe quindi farsi di nuovo concavo applicando la biblica regola d'oro: non fare alla Meloni quello che Fini fece a lui. Perché chi parte male finisce peggio. Ieri un autorevole dirigente del Pd ha twittato: «State iniziando a capire perché siamo costretti a governare anche se perdiamo?». Basterebbe questo per calare il sipario sul teatrino di questi giorni.

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