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Elezioni, la Caporetto del Pd: è il peggior ko della storia

Riccardo Mazzoni
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Il 25 settembre resterà nella storia della sinistra come il giorno della sconfitta più pesante dal dopoguerra, non solo in termini numerici, ma per gli effetti politici che ha prodotto: una svolta epocale che ha fatto definitivamente crollare anche il fortino rosso della Toscana, dove per la prima volta ha prevalso il centrodestra, con l'onta del sorpasso al Senato di Fratelli d'Italia sul Pd, da sempre partito padrone del Granducato. Ma la resa in questa regione simbolo è solo la punta dell'iceberg di una disfatta annunciata, ma non in queste proporzioni. I numeri per Letta sono infatti impietosi, nonostante i comprensibili tentativi di addolcire la pillola: nel 2018 il partito, allora a guida renziana, ottenne alla Camera il 18,72% a fronte del 72,94% di affluenza alle urne, mentre questa volta ha raggiunto il 19%, ma su appena il 63,91% di votanti, il che tradotto in numeri assoluti - significa che il Pd ha perso circa 800 mila voti (5.348 mila rispetto ai 6.134 727 del 2018). Un risultato catastrofico, dunque, visto che la performance negativa di Renzi veniva considerata come il punto più basso della parabola piddina, da cui non si sarebbe potuti che risalire. Invece Letta è riuscito a fare di peggio: richiamato da Parigi come salvatore della patria per sostituire il dimissionario Zingaretti, è rimasto prigioniero nella ragnatela delle correnti che aveva giurato di abolire finendo solo per consumare la sua personale vendetta nei confronti degli ex renziani rimasti. Di fronte ai quali, mutilando l'ala riformista, ha messo in mostra gli unici veri «occhi di tigre», di cui si sono invece perse le tracce in una campagna elettorale senza nerbo, senza prospettive e soprattutto senza una proposta politica convincente.

 

 

Perché non si può invocare la mobilitazione contro il ritorno del fascismo senza mettere conseguentemente insieme un ampio fronte repubblicano con dentro tutti i potenziali alleati, accordandosi invece con la sinistra anti-Nato di Fratoianni e lasciando fuori i Cinque Stelle che bene o male le sanzioni alla Russia le avevano votate; e allo stesso modo non si può siglare un patto di sangue con Calenda per poi farlo fallire quasi in tempo reale; o, infine, proporsi come il custode sempiterno dell'agenda Draghi salendo poi sul palco col governatore filogrillino Emiliano, lanciando così messaggi obliqui in ogni direzione. Ma sarebbe improprio, e anche ingiusto, addebitare il fallimento del Pd solo alle convulsioni dell'ultima campagna elettorale, e all'incapacità del segretario di costruire un'alternativa credibile alla destra. Il problema ha origini molto più lontane e profonde: nell'amalgama mal riuscito perfidamente bollato da D'Alema e in una nomenklatura abbarbicata ai giochi di palazzo, che non ha mai vinto un'elezione e ad ogni sconfitta elettorale sacrifica puntualmente un segretario all'unico scopo di perpetuare sé stessa e il risiko senza fine delle correnti, dei cacicchi e di una democrazia interna piegata agli interessi dei soliti noti.

 

 

Ora Letta ha annunciato che lascerà la segreteria a febbraio, non ripresentandosi candidato a un congresso che ha però tutta l'intenzione di eterodirigere puntando sulla stella nascente, la pasionaria Schlein. Il rischio però è quello dell'ennesima operazione cosmetica, di un gioco di specchi e di equilibri, mentre invece dopo una sconfitta epocale ci vorrebbe un congresso epocale, come quello con cui Occhetto passò dal Pci al Pds. Sarebbe l'unico modo per dare un'identità definita a una forza politica che presidiando i baluardi del potere ha perso anima e riferimenti sociali, e per scegliere se essere un partito radicale di massa, inseguire Conte nella deriva populista o costruire finalmente un campo riformista. In ognuno di questi casi, il prezzo di una scissione sarà inevitabile, a meno che non si scelga la strada di sempre: una finta pax correntizia in attesa dei fallimenti altrui per rientrare in gioco. Un gioco alla meno.

 

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