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Dopo il voto alle elezioni i partiti dovranno ripensarsi

Domenico Giordano
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Qualunque sarà il risultato che verrà fuori domenica notte dalle urne, c’è una nuova sfida che già da lunedì mattina attende i leader e i partiti e che questi non potranno derubricare a cuor leggero. Infatti, dopo lo scollinamento elettorale i protagonisti di questi ultimi anni, a prescindere dalle rispettive posizioni e dalle percentuali di consenso che si porteranno a casa, non potranno sfuggire all’imperativo di doversi totalmente ripensare. Leader e partiti sono chiamati inevitabilmente a dotarsi di un posizionamento differente rispetto a quello che hanno adottato fino a oggi. Non solo perché il dato elettorale lì costringerà a guardarsi allo specchio e a fare i conti con quei limiti che hanno accuratamente messo sotto al tappeto, ma perché il voto ha il merito di fotografare senza filtri le attese, le richieste e le mutevoli opinioni degli elettori. La sfida elettorale tra qualche ora quindi cederà il passo a quella della ricerca di una nuova narrazione di senso che i nostri leader dovranno inseguire se puntano a risintonizzarsi in breve tempo con il sentimento maggioritario dei cittadini.

Partiamo da Giorgia Meloni, forse tra i primi a dover rivedere la propria cornice narrativa. Dopo dieci anni passati costantemente all’opposizione di tutti i governi che si sono succeduti dal 2013, la leader di Fratelli d’Italia porta finalmente all’incasso la cambiale di una ferrea coerenza politica, ma considerate le previsioni della vigilia che l’accreditano come la possibile vincitrice di queste elezioni, è altresì obbligata dal giorno dopo a mettere in soffitta tutto l’armamentario di parole e simboli anti-sistemici che ha utilizzato con successo fino a questo momento. Lo stesso discorso, con gli opportuni distinguo, vale a maggior ragione anche per Giuseppe Conte e il Movimento 5 Stelle post-grillino. Con il voto di domenica prossima si chiude definitivamente il ciclo del posizionamento «rivoluzionario» delle origini, dei portavoce del popolo chiamati a redimere le istituzioni e a sanificare la politica. La cedola dell’onestà, per quanto valore politico sempreverde, non produce più quei profitti elettorali degli anni scorsi e dopo cinque anni trascorsi al governo del Paese, di continue fughe di deputati e senatori, di scissioni e, infine, di una mutazione della leadership, passata dalle mani del trio Grillo-Casaleggio-Di Maio a quelle dell’avvocato di Volturara Appula, i Cinque Stelle dorate non potranno più raccontarsi credibilmente come un partito moralmente diverso da tutti gli altri. Al pari della Meloni e di Conte, l’esigenza di nuovo posizionamento, per motivi diversi e complementari, investe pure la leadership di Matteo Salvini. Il segretario leghista dovrà innanzi tutto decidere se rinunciare in via definitiva all’ambizione di costruire un partito nazionale, amato allo stesso modo da Nord a Sud, oppure confinarsi politicamente sopra la linea gotica. L’una o l’altra scelta richiedono, di conseguenza, due diversi modelli di narrazione politica che non sono affatto sovrapponibili. Non di meno, anche il Matteo fiorentino, dopo aver frettolosamente appaltato la comunicazione della sua creatura politica a quella di Azione, dovrà necessariamente ricostruire dalle fondamenta un alfabeto identitario, non foss’altro perché la narrazione del terzo polo non ha acceso più di una fiammella nel cuore degli italiani. A meno che Renzi non scelga di traslocare il cartello elettorale messo in piedi con Calenda in un nuovo contenitore politico.

Infine, c’è Enrico Letta con il Partito Democratico. La campagna divisiva e volutamente polarizzante è stata criticata da molti, però innegabilmente è riuscita quantomeno a far guadagnare al segretario una fetta non secondaria nel cosiddetto mercato dell’attenzione. Il punto adesso, o meglio subito dopo il voto, è trovare una credibile exit strategy comunicativa per non rimanere imprigionato nelle fauci di «scegli».

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